Quest’oggi Paragrafi d’autore ospita un’esordiente che si è fatta notare per la sua bravura e competenza nonostante la giovane età. Stiamo parlando di Valentina Maini, autrice di La mischia (Bollati Boringhieri), romanzo ambientato nel 2007 in una Bilbao psichedelica, e che per noi di Pulp Libri ha scelto Samuel Beckett.
Sono nella camera di mia madre. Sono io a viverci ora. Non so come ci sono arrivato. Forse in un’ambulanza, certamente qualche veicolo. Mi hanno aiutato. Da solo non ci sarei arrivato. Quest’uomo che viene ogni settimana, è grazie a lui forse che sono qui. Lui dice di no. Mi dà un po’ di soldi e si porta via i fogli. Tanti fogli, tanti soldi. Sì, ora lavoro, un po’ come una volta, solo che non so più lavorare. Ciò non ha importanza, sembra. Io ora vorrei parlare delle cose che mi restano, accomiatarmi, finir di morire. Loro non vogliono. Sì, sono più d’uno, sembra. Ma a venire è sempre lo stesso. Lo farà più tardi, dice. Bene. Di volontà, come vedete, non ne ho più molta. Quando viene a cercare i fogli nuovi, riporta quelli della settimana precedente. Recano dei segni che non comprendo. D’altronde non li rileggo. Quando non ho fatto niente non mi dà niente, mi sgrida. Però io non lavoro per i soldi. Per cosa allora? Non lo so. Francamente, non so granché. La morte di mia madre, per esempio. Era già morta al mio arrivo? O è morta solo più tardi? Voglio dire morta da sotterrare. Non so. Forse non l’hanno ancora sotterrata. Comunque sia, sono io ad avere la sua camera. Dormo nel suo letto. La faccio nel suo vaso. Ho preso il suo posto. Devo assomigliarle sempre più. Manca solo un figlio. Forse ne ho uno da qualche parte. Ma non credo. Ora sarebbe vecchio, quasi come me. Era una servetta. Non era il vero amore. Il vero amore era riposto in un’altra. Vedrete poi. Ecco che ho dimenticato ancora il suo nome. Talvolta mi sembra di aver persino conosciuto mio figlio, di essermi occupato di lui. Poi mi dico che è impossibile. È impossibile che io abbia potuto occuparmi di qualcuno. Ho dimenticato anche l’ortografia e metà dei vocaboli. Ciò non ha importanza, sembra. Per me va bene. È un tipo buffo, quello che mi viene a trovare. Viene tutte le domeniche, a quanto pare. Gli altri giorni non è libero. Ha sempre sete. È stato lui a dirmi che avevo iniziato male, che bisognava iniziare diversamente. Lo ammetto. Avevo iniziato dall’inizio, figuratevi, come un vecchio coglione. Per me, eccolo qua l’inizio. Loro vogliono conservarlo a ogni costo, se ho ben capito. Ne ho fatta di fatica. Eccolo. Mi ha dato un gran da fare. Era l’inizio, capite. Mentre adesso è quasi la fine. È migliore, questo che faccio adesso? Non so. Non è lì il problema. Per conto mio, ecco il mio inizio. Deve pur significare qualcosa, se lo conservano. Eccolo.
Questa volta qui, poi penso ancora una, poi sarà finita, penso, anche con quel mondo là. È il senso del penultimo. Tutto sfuma. Ancora un po’ e si sarà ciechi. È nella testa. Non funziona più, dice. Non funziono più. Si diventa anche muti e i rumori si affievoliscono. Appena superata la soglia è così. È la testa che deve averne abbastanza. Per cui uno si dice, ce la farò ancora questa volta, poi ancora un’altra, forse, poi sarà finita. Uno stenta a formulare questo pensiero, perché lo è, in un certo senso. Allora vuole fare attenzione, considerare con attenzione tutte queste cose oscure, dicendosi, penosamente, che è colpa sua. La colpa? È la parola che è stata usata. Ma quale colpa? Non è l’addio, e che magia in queste cose oscure cui sarà tempo di dire addio, al loro prossimo passaggio.
(Samuel Beckett, Molloy, trad. Aldo Tagliaferri, Einaudi)
«Che maledizione la mobilità!», gridava Winnie in Giorni felici, mezza sepolta nella sabbia. Se c’è una cosa che mi ha sempre colpito dei personaggi beckettiani è come camminano. Il loro movimento è trattenuto, contradditorio, zoppicante, come il contrasto tra voce e didascalia della sua opera teatrale più famosa, Aspettando Godot: «Sì, andiamo», dice Estragone; «Non si muovono» risponde la didascalia. Come cammina Molloy, uno dei suoi personaggi più sgangherati? Cammina misteriosamente, come chi tenta di non arrivare mai, così come chi deve trovarlo, Moran, non la smette di partire. Il loro è un moto a perdere, senza destinazione se non il continuare; è un moto senza incontro, ma dove il desiderio dell’altro è inestinguibile, proprio perché espresso in questa perenne potenzialità. Chi non arriva non uccide mai il desiderio, forse per questo il mio Beckett non è triste, né cinico, ma è spesso allegro, buffo, mi fa ridere a voce alta ed pieno di sentimento anche se parla poco, e quando lo fa mi sembra sempre di stargli sulle palle.
Valentina Maini è nata nel 1987 a Bologna. Ha conseguito un dottorato in Letterature comparate tra Bologna e Parigi e ha pubblicato racconti su Retabloid, TerraNullius, Atti Impuri, Horizonte e altre riviste. Alcuni suoi articoli sono comparsi su Poetiche, La Deleuziana, i Classiques Garnier. Con la raccolta di poesie Casa rotta (Arcipelago Itaca, 2016) ha vinto il premio letterario Anna Osti. Traduce dal francese e dall’inglese.