Un libro per appassionati di enigmistica, non a caso ospitato nella collana Bompiani diretta da Stefano Bartezzaghi. Non vi si trovano astrusi e complicati enigmi della Sfinge, o altrettanti cavalieri de La settimana enigmistica (non valgono gli “innumerevoli tentativi d’imitazione”), ma una folla di personaggi, vivi e morti (ma i morti qui vivono ancora), estremamente “veri” tutti appartenenti alla stirpe dei Crepax (o Crepas, secondo certe avventure anagrafiche in sede comunale). Non proprio tutti, per la verità: le storie narrate nei veloci e gustosissimi capitoli sono intricate, e piene di adulti, bambini, animali di varie specie, case, mobili e soprammobili, giradischi e musica leggera, summa d’epopee seducenti, e fumetti. Già, fumetti.
Valentina Crepax, l’autrice (ahimè scomparsa il 30 luglio del terribile 2020, dopo aver consegnato all’editore quest’ultima sua opera) ha l’avventura di ritrovarsi nipote del “fumettista” (dannata definizione) Guido Crepax, quello che “disegnava sempre” e che come gli altri due fratelli stravedeva per i sederi femminili e Fausto Coppi. Attenzione, queste sono storie degli anni Cinquanta, soprattutto della Milano in cui le famiglie borghesi individuavano sempre i marron glacé più grossi in un vassoio e si pettegolava sul flirt del momento che, guarda caso, aveva Emilio Tadini come protagonista. Valentina Crepax, appartenente a una famiglia in cui l’umorismo ha sempre regnato, non è soltanto la “vittima” di uno dei più grandi disegnatori del fumetto italiano – portando lo stesso nome della Valentina di carta, massima eroina dei cartoon “erotici” – ma è figlia di chi ha inventato, per esempio, Gigliola Cinquetti, i Pooh, Endrigo e la Vanoni, Umberto Bindi e gli Squallor. Vale a dire il Franco Crepax discografico della Ricordi e della CGD. Gran genio, anche cattivissimo secondo il racconto di Valentina. Le cose si complicano. Amabilmente. Lo annota puntuale l’autrice, in capitoli che diventano un compendio antropologico del periodo in cui arte e industria convivono in liaison straordinarie: dicono qualcosa i nomi di Olivetti, Sottsass, Volponi, Ottieri, Levi?
Quando la Valentina di carta, ispirata a Guido Crepax dalla propria moglie Luisa e soprattutto dall’attrice e ballerina Louise Brooks (stesso caschetto, stesso portamento fascinoso), e forse in ultimo dalla nipote, diventa improvvisamente famosa nelle pagine di Linus (fondato da Giovanni Gandini nel 1965 fra le pareti della sua libreria Milano Libri), tutto cambia. In una famiglia, i cui componenti sono inclini al riso (“noi Crepax abbiamo sempre saputo ridere anche delle cose serie”), brillanti e inarrestabili su vari fronti, Valentina Crepax diviene vittima sull’altare dell’erotismo raffigurato dallo zio. Come spiegare che la Valentina vera non era quella disegnata? Come convincere chi telefonava in continuazione che in quella casa non abitava una donna desideratissima, in bianco e nero e con una vita fuori dalle righe? Senza contare che molte bambine nella famiglia, in seguito alla fama della Valentina di carta, si riconoscevano “valentinizzate”. Molteplici, dunque, gli imbarazzi e i tentativi spesso riusciti di allontanarsi dalle somiglianze e da certe storie scabrose (Justine, Histoire d’O), disegnate (in modo impareggiabile) da Guido Crepax.
Ma fra i Crepax esiste un regolamento per così dire “crepaxiano”: ironia giammai dismessa, antifascismo, calzini bianchi vietatissimi così come la canottiera, parolacce libere ma non la bestemmia ingiustificata. Snobismo, certo, ma corretto dalla cultura profonda in cui l’epoca sostava e di cui si nutriva per ricostruire tutto. Che tutto nei Cinquanta e Sessanta occorreva ricostruire. Per questo un libro come Io e l’asino mio riesce a raccontare una vicenda italiana che scandaglia usi e costumi, modi di pensare e di vivere oggi quasi del tutto dimenticati, così come gran parte della cultura in cui era immersa la famiglia dei Crepax e altre famiglie a cui letteratura e poesia devono molto. Quelli erano i tempi in cui dialogavano e litigavano, tanto per essere chiari, Sereni, Pasolini, Fortini, Flaiano, Ortese, Vittorini, Sanguineti, e creavano le loro opere Tadini, Guttuso, Fontana, Accardi, Burri, Vedova. E i fotografi si chiamavano Berengo Gardin, Mulas, De Biasi. La lettera finale all’autrice dell’amica Natalia Aspesi si accosta con gratitudine al racconto, profondo e rivelatore, di una donna che ha sempre considerato drogherie e redazioni alla stessa stregua, opponendosi frontalmente a perbenismi, sciatterie, sanbabilini e regole terroristiche. Come non amare la Valentina vera che, per contrastare fianchi e culo a violoncello della Valentina di carta (esposta in tutte le edicole sulla copertina di Linus), madre natura dota di tette fuori misura, un incubo oltretutto “fuori moda”? Lei, allevata nel fracasso delle prime lavatrici, diventata grande giornalista di società e costume, scrittrice dai molti luoghi, donne, uomini e cose.