Valerie Sybil Wilmer è personaggio che val la pena indagare. Fotografa e scrittrice inglese, sorella del poeta Clive Wilmer, venne al mondo il giorno dell’attacco giapponese a Pearl Harbour, il 7 dicembre del 1941, e ha dedicato la vita a studiare la variegata galassia della Black music afroamericana e caraibica – jazz, gospel, blues –, di cui cadde in amore sin da adolescente. I suoi esordi risalgono al 1959, quando, appena diciassettenne, pubblicò su “Jazz Journal” un profilo del cantante blues e folk americano Jesse Fuller: la prima di una serie di perle, anche fotografiche, assurte a rango di classici della critica musicale, caratterizzate da competenza, focus sul dato biografico, attenzione alle istanze sociali e politiche della musica e della cultura afroamericana. Centinaia le interviste ad artisti – tra cui giganti quali Louis Armstrong, Duke Ellington, Thelonious Monk, John Coltrane, Ornette Coleman, Billy Higgins, Albert Ayler, Archie Shepp, Cecil Taylor, il poeta Langstone Hughes –, corredate da immagini che li mostrano lontano dai riflettori, anche esibite in mostre museali. Altrettanto seminale la ricerca sul jazz britannico: parte del suo lavoro è confluito nell’Oral History of Jazz in Britain, nelle voci dell’Oxford Dictionary of National Biography, mentre il V&A Museum di Londra ha allestito una collezione fotografica permanente dei suoi scatti.
Va dunque imperituro merito a Shake edizioni l’aver proposto un classico della Wilmer, apparso nel lontano 1977 con la puntuale traduzione di Claudio Mapelli. Nella nota introduttiva l’autrice lo definisce “una storia sociale di un particolare periodo”, e in effetti il suo valore travalica l’ambito musicale. Come osserva nella prefazione il critico musicale Richard Williams, il libro è frutto dell’immersione d’una vita nella musica e nei musicisti, e cattura “la combinazione di indomabile creatività, fede e stoicismo” di una generazione di artisti i quali, orfani dei grandi padri (Monk, Ellington, Holliday), rispondevano a una chiamata che “offriva scarse promesse di ricompense materiali rispetto a quelle garantite ai più fortunati dei loro predecessori”. Wilmer considera questo “nuovo jazz” come ispirato a un senso di missione, originato e sviluppatosi dalle innovazioni di un gruppo di artisti radicali, il cui nucleo comprendeva Cecil Taylor, Sun Ra, John Coltrane, Ornette Coleman e Albert Ayler, che misero in discussione le condivise regole di melodia, armonia e ritmo, la struttura verticale e orizzontale dei brani. Free jazz, New wave, Avant-guarde, New thing: tali le etichette date ad un movimento rivoluzionario ed eterogeneo che sin dall’apparire suscitò reazioni indignate dei puristi e feroci attacchi dai critici dell’establishment.
L’approccio aperto e ricettivo, la radicalità di pensiero, la sensibilità e l’empatia hanno permesso all’autrice di comprendere la lotta creativa ed economica dei musicisti avvicinati, le sfide affrontate da outsider; costoro l’hanno accolta nella loro comunità, consentendole di divenire “una credibile e valida cronista” (così Williams) delle loro vite. Per loro tramite Wilmer rintraccia dunque le origini del Free jazz, individuandone le influenze nel bebop, nel blues e nella musica africana, ne segue l’evoluzione stilistica, dalle prime sperimentazioni alla sua piena affermazione, analizzandone le caratteristiche distintive: l’improvvisazione libera, l’atonalità e l’esplorazione di nuove sonorità. Ma non si limita a questo: lo contestualizza nell’ambito storico e sociale in cui prese forma, con le tensioni razziali che attraversavano gli Stati Uniti, i movimenti di protesta per i diritti civili e l’emancipazione delle minoranze (di razza, genere e orientamento sessuale), sottolineando il legame indissolubile tra la musica e le istanze politiche della comunità afroamericana, nell’idea che la musica è espressione di un’identità culturale, di una volontà di cambiamento sociale. Costante è l’indignata polemica con quei critici che “dimenticano la situazione sociale dalla quale deriva la musica afroamericana e ne ignorano il vero significato”, verso la dilagante “ignoranza” di alcuni settori della stampa musicale.
Il volume consta di cinque sezioni: la prima, “Innovatori e innovazioni” si sofferma sugli aspetti dell’arte di John Coltrane, Cecil Taylor, Ornette Coleman, Sun Ra, Albert Ayler e sulla AACM (Association for the Advancement of Creative Musicians), che, con la Jazz Composers Guild, consentì ai musicisti di liberarsi dalle infrastrutture di gestori di locali, promoter di concerti e case discografiche che cannibalizzavano la loro creatività; la seconda, “Chi sono i musicisti?”, porta alla ribalta personaggi meno noti, soffermandosi sul background culturale ed esistenziale, sugli impedimenti incontrati da chi “conosce il proprio valore”, ma “raramente ha la possibilità di dimostrarlo”; la terza, “Rendete un po’ di merito al batterista!” (frase di James Brown), enfatizza l’imprescindibile ruolo della ritmica nella musica nera, “lo spirito dietro i musicisti”, all’epoca evidenza poco considerata; nella quarta, “Il ruolo della donna”, l’autrice affronta “con pioneristica insistenza” (Williams) un ambito inesplorato, mettendo a nudo le enormi difficoltà che le strumentiste donne hanno avuto in un mondo decisamente maschilista come quello del jazz nero (“Suoni bene, per essere una donna!” era il cliché che si sentivano ripetere); l’ultima sezione, “La cospirazione e alcune soluzioni”, dettaglia i risvolti socio-economici, politici, collettivistici, e il rapporto con i media di questa generazione di musicisti. L’opera si chiude con cenni biografici degli artisti presi in considerazione (ben 164, se non ho contato male), una mappatura preziosissima, e una corposa bibliografia.
Wilmer considera la musica nera, con il cinema, quale più importante forma d’arte del Novecento, e ha saputo evidenziarne i sottotesti socio-antropologici (anche grazie ad incontri con poeti, drammaturghi e saggisti afroamericani quali Langston Hughes, Jane Cortez, Amiki Baraka), indagando, documentando e celebrando una straordinaria stagione musicale ed esistenziale. La scrittura diretta e appassionata, densa di testimonianze, aneddoti e dettagli, rende accessibili anche concetti musicali complessi, e apprezzabile è l’aver legato l’universo emotivo degli artisti – la musica sgorga dalla fonte della loro umanità e del loro vissuto – con il valore identitario e politico dei progetti portati avanti, senza infognarsi in sterili diatribe tecnicistiche.
In conclusione, siamo davanti a un libro imprescindibile per chi voglia approfondire la conoscenza del Free Jazz e in generale della Black music e della cultura afroamericana degli anni Sessanta e Settanta del secolo passato. Ma questo non è il solo aspetto a renderlo intrigante: “Vivere questa musica dall’interno fin dall’inizio degli anni Sessanta è stata un’esperienza senza pari”, confessa l’autrice, una “lezione sulla dedizione durata una vita”. Scrivere il libro “è stato riconoscere certe responsabilità che gravavano sulle mie spalle; portarlo a termine un atto d’amore”. È così: queste pagine propongono un viaggio esistenziale, vi palpita la vita, un contenuto di autenticità e di libertà che avvince anche chi non sia un esperto o un amante della materia trattata. Provengono da un tempo lontano, un’epoca di coinvolgimento civile e di lotta, di impegno morale e di sfida alle ingiustizie del mondo, pagine che gettano un ponte all’oggi omologato, essiccato di valori e di emozioni. La musica, come la vita, “non è mai prevedibile”: è continua scoperta, apertura di nuovi orizzonti. Come ben sapeva Albert Ayler, “che estirpa da Summertime significati che Gershwin non aveva mai neppure sognato”, poiché “quello che conta è il suono della sorpresa”. Come anche sapeva McCoy Tyner, per il quale “la musica non è un balocco; è seria quanto la tua vita”.