Quando nel 1957 il preside della facoltà di scienze umanistiche di Harvard chiese suggerimenti su potenziali talenti da reclutare all’università, molti fecero il nome di Vladimir Nabokov, che in quel momento insegnava alla Cornell University di Ithaca, nello stato di New York, ma che cinque anni prima era stato visiting professor proprio ad Harvard. Brian Boyd, il biografo di Nabokov, racconta che la «star» del dipartimento di slavistica, il famoso linguista Roman Jakobson, si oppose con fermezza alla potenziale candidatura di Nabokov: non vorranno mica assumere uno che in classe è solito fare a pezzi Dostoevskij davanti agli studenti definendolo uno scrittore di gialli? Quando qualcuno gli fece notare che Nabokov era un romanziere eccezionale, Jakobson rispose: «Signori, anche ammettendo che sia uno scrittore importante, cosa faremo poi, inviteremo un elefante a ricoprire la cattedra di zoologia?». Inutile specificare che del possibile reclutamento di Nabokov non si parlò più.
L’anno successivo Lolita venne finalmente pubblicato negli Stati Uniti (la prima edizione era uscita nel 1955 per la Olympia Press ed era stata inizialmente ignorata e poi messa al bando, mentre in America vendette 100.000 copie nelle prime tre settimane); forte del ritorno economico e dell’acquisita notorietà, nel 1959 Nabokov pose fine alla sua esperienza di insegnamento universitario e abbandonò Cornell per non tornarvi mai più.
Nabokov era arrivato alla Cornell University il primo luglio del 1948, dopo sette anni trascorsi a capo del dipartimento di Studi russi del Wellesley College, dove insegnava lingua e grammatica, ma teneva anche un corso di letteratura russa in traduzione. A Cornell fu nominato professore associato e nel 1950, oltre ai corsi di letteratura russa, gli fu affidato un corso in inglese intitolato «Maestri della narrativa europea», da cui sono tratte le lezioni riportate nel prezioso volume ristampato quest’anno da Adelphi. Per Nabokov l’insegnamento era un’attività di contorno rispetto alla scrittura (che occupava gran parte del suo tempo) e alle ricerche sui lepidotteri, che lo scrittore si dilettava a studiare e classificare con un rigore quasi maniacale. Nel periodo trascorso a Cornell Nabokov scrisse i romanzi Lolita e Pnin, oltre a concepire l’idea per Fuoco pallido; approntò le versioni inglese e russa dell’autobiografia Conclusive Evidence (che anni dopo avrebbe rielaborato, ampliato e ripubblicato col titolo Parla, ricordo) e lavorò alle traduzioni in inglese di Eugenio Onegin e del Canto della schiera di Igor’, un poema epico anonimo della letteratura ucraina scritto in antico slavo orientale e risalente alla fine del XII secolo. Dove trovava il tempo per svolgere anche le basilari funzioni accademiche normalmente richieste a un professore (fare lezione, ricevere gli studenti, correggere gli elaborati, assegnare i voti, tenere esami, partecipare ai consigli di facoltà)?
Com’è noto, Nabokov aveva una preziosa alleata nella moglie Véra, che lo accompagnava ogni giorno a lezione e svolgeva il ruolo di assistente, segretaria personale, editor, consulente e, quando occorreva, professoressa aggiunta. Seduta in prima fila mentre il marito faceva lezione, Véra si alzava prontamente ad accendere la luce se si accorgeva che il marito stentava a leggere gli appunti; copiava alla lavagna gli elaborati diagrammi abbozzati da Nabokov per riassumere la struttura o i rapporti tra i personaggi dei romanzi discussi a lezione (molti di questi schemi sono inclusi nel volume, anche se si dice che le indicazioni all’«assistente» siano state espunte); addirittura, se il marito era malato e non era in grado di fare lezione, Véra leggeva gli appunti in classe al posto suo. Gli studenti guardavano quella donna affascinante dai capelli bianchi con curiosità, qualcuno continuava strategicamente a sorriderle nella speranza di ingraziarsela, altri ipotizzavano che fosse una studentessa del dottorato o persino la madre del professore.
Ben presto nel campus cominciarono a circolare le leggende più strampalate sul suo conto: si diceva che tenesse una pistola nella borsetta per difendere il marito da possibili aggressioni, che fosse lì per soccorrere Nabokov nel caso avesse avuto un attacco di cuore, che scrivesse lei alla lavagna perché il professore era allergico al gesso, o che la sua presenza servisse a ricordare poi a Nabokov cosa aveva detto in classe e cosa avrebbe dovuto chiedere all’esame. A volte Véra faceva ricevimento agli studenti per conto del marito, era solita correggere gli elaborati assegnando lei stessa i voti, aiutava Nabokov nelle traduzioni, sbrigava la corrispondenza del marito (giocando con l’iniziale del nome, la V., che i due avevano in comune) e spediva i manoscritti agli editori, negoziando le clausole di pubblicazione con la perseveranza di un mastino. Quando Nabokov presentò domanda di assunzione in un altro college, qualcuno che conosceva bene la situazione suggerì con ironia: «Non vi disturbate ad assumere lui; è lei che fa tutto il lavoro».
Il corso di letteratura europea di Nabokov era tra i più popolari del campus, le richieste di frequenza superavano ogni anno il limite massimo di studenti ammessi, e c’era sempre qualcuno che, dopo la chiusura delle iscrizioni, insisteva con lo scrittore per poter assistere ugualmente; alla fine immancabilmente Nabokov cedeva: «Bene, d’accordo, se vuole essere così masochista…». Il corso era soprannominato «letteratura sconcia» (ma pare che il nomignolo derivasse dal predecessore di Nabokov, il quale, secondo quanto riferisce Updike nell’introduzione al volume, era interessato più alla vita sessuale degli autori che ai loro libri; chissà se Updike ha mai raccontato questa storia all’amico Philip Roth – in questo caso avremmo scoperto una possibile fonte di David Kepesh, il «professore di desiderio» dell’omonimo romanzo). Le lezioni di Nabokov erano irriverenti, ipnotiche, appassionate ma anche rigorose; il suo approccio personale, ironico, iconoclasta. Era convinto che la letteratura andasse apprezzata «con la schiena», attraverso quel «fremito rivelatore» che si avverte tra le scapole; un libro per Nabokov non si legge, «lo si può solo rileggere», perché «è solo a una seconda, terza, o quarta lettura che davanti al libro, in un certo senso, ci comportiamo come davanti a un dipinto», abbracciandolo nel suo insieme. Eppure, tutti «dovremmo sforzarci di mantenere un certo distacco, e apprezzare questo distacco, e al contempo gustare avidamente, gustare con passione, gustare con lacrime e brividi, la tessitura interna di un determinato capolavoro»; in altre parole, «il lettore deve sapere quando e a che punto frenare la propria immaginazione». Forse era proprio questo il motivo della presenza di Véra Nabokov a lezione: frenare l’immaginazione sfrenata dell’artista, ricordandogli il suo ruolo di docente.
A proposito di Jane Austen, che non amava, Nabokov scrisse candidamente a Edmund Wilson di non aver «mai trovato niente di interessante in Orgoglio e pregiudizio”. Ciò nonostante decise comunque di includere Mansfield Park nel suo corso, e riuscì a cogliere aspetti intriganti dello stile di Austen, come quella che definisce «la fossetta, che spunta quando lei, furtivamente, introduce tra le componenti di un semplice brano informativo, un accenno di delicata ironia». Di Dickens, che invece adorava (non «il riformatore», l’autore del «romanzetto da due soldi, del ciarpame sentimentale», ma il Dickens «incantatore»), Nabokov diceva agli studenti: «Dobbiamo solo abbandonarci alla sua voce, nient’altro. Se fosse possibile, mi piacerebbe trascorrere i cinquanta minuti di ogni lezione in silenzio, a meditare su Dickens, a concentrarci su di lui, ad ammirarlo». Il corso proseguiva poi con la lettura di Madame Bovary, dove Flaubert «riesce a trasformare un mondo che immagina sordido, popolato di imbroglioni e filistei, di individui mediocri e gretti e signore capricciose in uno dei più perfetti esempi di narrazione poetica di tutti i tempi, e vi riesce armonizzando le varie parti, ricorrendo alla forza interiore dello stile, all’uso di accorgimenti formali come il contrappunto nel passaggio da un tema all’altro, le premonizioni, i riecheggiamenti». E ancora, nei programmi di quegli anni comparivano Robert Louis Stevenson, Marcel Proust, Franz Kafka, James Joyce. Lezioni di letteratura è il classico libro che sceglieremmo di portare su un’isola deserta se ci venisse offerta una sola possibilità di lettura. O che bisognerebbe spedire nello spazio per presentare la civiltà umana agli occhi di potenziali visitatori extraterrestri.
Tra gli studenti che facevano carte false per iscriversi alle lezioni di Nabokov ce n’era uno che, pur essendo stato ammesso a lezione, probabilmente decise poi di rinunciare al privilegio: Thomas Pynchon. Prima di diventare lo scrittore invisibile più famoso d’America, a sedici anni si era iscritto alla facoltà di ingegneria della Cornell University per l’anno accademico 1953-54, ma l’anno successivo passò alla facoltà di lettere. Arruolatosi in marina, tornò a Cornell nel 1957 per laurearsi due anni dopo in letteratura inglese. Durante un’intervista rilasciata a Alfred Appel Jr. nel 1966 (e inclusa in Intransigenze, tr. Gaspare Bona, Adelphi 1994, pp. 394, € 25,00), Nabokov affermò di non conoscere le opere di Pynchon, ma Appel riporta in nota una notizia rivelatrice: «La signora Nabokov, che correggeva i compiti d’esame degli allievi del marito, si ricorda di Pynchon, ma solo per la sua scrittura ‘insolita’: per metà in stampatello, per metà in corsivo». Forse la vaga reminiscenza di Véra non basterebbe da sola a confermare la partecipazione di Pynchon a uno dei corsi del marito, ma ad avvalorare questa suggestiva ipotesi c’è anche una prova documentaria: il nome del futuro scrittore è riportato nel foglio in cui Nabokov aveva appuntato i voti degli studenti iscritti al corso relativo al semestre autunnale del 1957 e denominato «Literature 311: Masters of European Literature» (ved. figura inclusa). Tuttavia, il nome «Pynchon Thomas R.» appare cancellato con un segno di penna, insieme ad altri due nomi che, come sembrerebbe evidente dai voti ricevuti, non avevano raggiunto i requisiti per superare l’esame. Quello di Pynchon, però, è l’unico nome per cui Nabokov non ha riportato voti, il che lascerebbe supporre che il futuro scrittore si fosse ritirato dal corso prima di sostenere l’esame. Del resto, già allora Pynchon aveva fama di lettore vorace e appassionato, e risulta molto difficile credere che non fosse riuscito a superare una prova incentrata sui classici della letteratura europea.
È affascinante immaginare il futuro autore di V. intento ad ascoltare Nabokov parlare dell’Ulisse sottolineando come «nella mente di Bloom e nel libro di Joyce il tema del sesso si mescola e si intreccia spesso con quello della latrina”. Oppure, come ha fatto Susan Elizabeth Sweeney, ipotizzare che lo studente anonimo presentatosi con un inchino davanti a Nabokov nell’autunno del 1957 con una copia dell’edizione Olympia Press di Lolita (l’episodio è riportato da Boyd nella sua biografia) fosse proprio il giovane Pynchon, che voleva rendere omaggio al maestro a modo suo. O sospettare, come ha fatto Matthew Winston in pieno stile paranoico, che sia stato lo stesso Pynchon, più avanti, a far sparire dagli archivi di Cornell ogni documento riguardante i corsi seguiti. Io preferisco invece immaginare che Pynchon, di ritorno dalle avventure a Malta vissute mentre era in marina, si fosse iscritto con entusiasmo al corso di Nabokov e si fosse precipitato al ricevimento per parlare con il famoso scrittore, ma al suo posto avesse trovato Véra. Chissà… magari proprio la conversazione con lei potrebbe avergli ispirato l’idea di scrivere un romanzo incentrato su una donna misteriosa, onnipresente ma sfuggente, il cui nome inizia per V. e che – come l’«assistente» del professore secondo i pettegolezzi del campus – è in realtà una specie di eminenza grigia, armata e pericolosa.