Utopia di Tommaso Moro è il libro che ha dato il suo nome a un paradigma – l’utopia – che oggi decliniamo più o meno indistintamente con termini come utopismo, utopistico, ecc., per indicare qualcosa di auspicabile ma al tempo stesso di irrealistico (tipo il socialismo, una società non gerarchica o la giustizia climatica). Il suo corollario, enunciato in sottotesto, resta infatti: there is not alternative. Il protagonista del libro, dopotutto, si chiamava Itlodeo (raccontatore di bugie) mica per niente. Utopia – recita sempre il paradigma – è un’astrazione, ambientata in un’isola che non c’è e isolata dall’influenza delle forze esterne. E se non è un’isola comunque un microcosmo che risponde solo all’immaginazione del suo autore, come nella successive utopie (ora con la minuscola) avanzate da Francis Bacon, Tommaso Campanella, Joseph Fourier, William Morris, Samuel Butler, per dire i primi nomi che vengono in mente.
Utopia prende inoltre il nome dal suo fondatore – Utopo – che, dopo averla separata dalla terraferma con il taglio ombelicale dell’izmo, le impone un nome nuovo di pacca, rimuovendo dalla memoria quello precedente di Abraxa (legato a reminiscenze gnostiche). E anche questa amnesia fa parte del paradigma dell’utopia, nato con la “scoperta” di un Nuovo Mondo abitato da selvaggi e da “terraformare”. Un format della modernità che fa tutt’uno con la passione per le mappe, i viaggi e le conquiste coloniali di un’epopea tutta europea e maschile, come ricorda anche Ursula K. Le Guin nel saggio del 1982 “Visione non euclidea della California come luogo freddo”, uno quatto presenti in coda al volume. Una narrazione che non facendo i conti con la memoria di colonizzati, donne, non umani, ecc., ha privilegiato gli aspetti meccanici e freddi (yin) rispetto a quelli organici e caldi (yang) dell’immaginazione sociale. L’utopia, insomma, andrebbe ricalibrata ed emancipata da un’idea di progresso che negli ultimi cinque secoli si è riprodotta come un virus nel corpo del pianeta ospite. Perché, osserva China Mieville nella presentazione del libro, l’utopia è anche desiderio di alterità, chi vi rinuncia abdica al proprio futuro e si rassegna a credere all’utopia del capitalismo finanziario o ai suoi sottoprodotti politici. E, come chiosava Fredric Jameson, nelle ultime pagine del suo monumentale Il desiderio chiamato Utopia: “Forse dovremmo iniziare a provare una certa angoscia per la perdita del nostro futuro, un’angoscia simile a quella di Orwell per la perdita del passato, della memoria e dell’infanzia”. Era il 2007 e da allora sembra trascorso mezzo secolo. Jameson indagava l’utopia, senza tralasciare la fantascienza speculativa, come genere letterario ma soprattutto come “spazio di pensiero” e “maglie di testi” che il postmoderno sembrava aver relegato a progettualità non qualificata.
Timeo – la nuova creatura editoriale di Corrado Melluso – propone il classico di Tommaso Moro nella traduzione di Roberto Bartolozzi (la stessa dell’edizione italiana curata nel 1945 da Alberto Savinio) con sostanziose estensioni testuali di due pilastri della narrativa fantasy e fantascientifica come Ursula K. Leguin (1929-2018) e China Miéville. Uno sguardo lungo, al tempo stesso antropologico e narratologico , a partire dalla riflessione femminista e ambientalista degli anni ’70, nel primo caso; un pensiero radicale e netto, che si riconosce nell’ecosocialismo e vicino oggi alle posizioni di un Andreas Malm, nel secondo. Una formula editoriale invogliante, rivolta anche al lettore “forte” di fiction, invitato a indagare questa volta un’ interzona speculativa – i classici, certo, ma anche la saggistica in generale – alla luce di un package “attualizzato” e accattivante, con il tocco fetish di una copertina argentata da libro oggetto. L’Utopia a due facce di Moro – la satira morale dell’Inghilterra del XVI secolo del primo libro, la repubblica egualitaria e autoritativa che ha abolito denaro e proprietà privata, del secondo – diventa così l’occasione per riesaminare l’utopia come tool trasformativo, per cambiare la narrazione del nostro presente. Per fare i conti con le opzioni sociali ancora disponibili all’azione politica che l’emergenza climatica ci obbliga oggi a riconsiderare.