Un’ora non proprio felice

Mary Miller, Happy Hour, tr. Sara Reggiani, Black Coffee, pp. 264, euro 15,00 stampa

«Ai miei ex», si legge nell’esergo di questa raccolta di sedici racconti a opera di Mary Miller, una delle giovani voci più interessanti nel panorama della letteratura contemporanea del Sud statunitense, il cui romanzo d’esordio, The Last Days of California (2013), storia di formazione on the road, fu già ben ricevuto da pubblico e critica.

Se nel primo romanzo la ricerca di sé era declinata sullo sfondo canonico degli sconfinati spazi nordamericani, qui la dimensione si fa domestica fino alla claustrofobia: i racconti di Miller, tutti brevi o brevissimi, sono diapositive in prospettiva strettamente femminile di vite in crisi, la cui componente drammatica è stemperata dallo stile freddo e chirurgico dell’autrice, che si dimostra, come le sue protagoniste, estremamente cinica e disillusa.

L’epigrafe citata in apertura ne è la dimostrazione; l’importanza del vissuto di Miller nella definizione dei racconti è ribadita anche nei ringraziamenti finali, nei quali la scrittrice afferma di avere materiale ancora per gli anni a venire. Happy Hour è ostinatamente monotematico: le voci delle protagoniste (le cui vite e riflessioni sono a volte talmente simili da mascherare a malapena l’autobiografismo all’origine della raccolta) raccontano di rapporti infelici e condannati, depressione, ansia e infedeltà, mostrando spesso un distacco quasi clinico dall’oggetto della narrazione che fa sorgere più di qualche dubbio sull’umanità di questi personaggi religiosamente dediti alla scelta sbagliata. L’impressione che resta è quella di un’umanità preda di una radicale alienazione, schiava di vodka, erba e pastiglie varie, il tutto incastonato in un Sud torrido e lunare, popolato di comparse se possibile ancora più malmesse delle donne protagoniste.

Mary Miller conosce bene la sua terra, il poverissimo e disgraziato Mississippi che fu di Faulkner ed Eudora Welty prima di lei; e, dalle interviste rilasciate, si intuisce la ferma volontà di iscriversi all’interno di questa tradizione regionalista, aggiornata per includere shopping malls, Facebook e Instagram. Contrariamente alla sua quasi-conterranea e quasi-coetanea Sara Taylor, un’altra delle recenti rivelazioni letterarie del meridione americano che, in Tutto il nostro sangue, calca apertamente le strade del gotico e del romanzo genealogico – tipicamente legate a questo territorio – nei racconti di Miller lo sradicamento esistenziale non è mai declinato come male intergenerazionale e pervasivo, ma piuttosto ricondotto nella dimensione personale e privatissima dei pensieri inconfessabili. Se la tendenza della letteratura Dixie è generalmente stata quella di mostrare il malessere di un’intera società improvvisamente priva di riferimenti, in Happy Hour quella stessa società è ormai atomizzata, composta da una costellazione di solitudini che non riescono o non vogliono comunicare. La freddezza dell’autrice è funzionale nel rappresentare la paralisi emotiva di queste giovani donne intrappolate in una società indifferente e sempre pericolosamente vicina al collasso. «Questa non è la mia vita», afferma una delle protagoniste, aggiungendo però: «tanto vale fingere che lo sia», dando voce a un disagio irreversibile che è sì del Sud americano, ma più ancora, e più intensamente, femminile.

Mary Miller veicola una visione onesta quanto desolante, regalando degli scorci memorabili sulla disperazione di una generazione che, priva di una “casa” e quasi priva di una voce, si trascina attraverso vite più o meno derelitte alla ricerca vana, e più spesso solamente sognata come riscatto dal presente, di comprensione.

 

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