Anche quest’anno il Premio Strega ha consumato i suoi rituali e le sue celebrazioni. Lungi dall’essere specchio fedele di tutto ciò che si agita nelle scritture di lingua italiana contemporanee, il Premio resta una cartina di tornasole di quel lavoro editoriale che ha il privilegio di raggiungere la diffusione presso il grande pubblico (ammesso che ormai in Italia esista un “grande pubblico” della narrativa). Quest’anno nella “settina” dei libri finalisti (a differenza della consueta “cinquina”) erano rappresentati alcuni dei soliti grandi marchi italiani: Einaudi (addirittura con due libri), Adelphi, Mondadori, Rizzoli e poi, un po’ fuori dall’ordinario, Bollati Boringhieri e minimum fax, c’erano quattro scrittori e tre scrittrici in un piuttosto insolito equilibrio. Ma ad affermarsi è stato un uomo, Mario Desiati, e il colosso Einaudi. Del resto, l’ultima vincitrice risale al 2018, Helena Janeczek con La ragazza con la Leica (Guanda) e, prima di lei, Margaret Mazzantini con Non ti muovere, addirittura nel 2002.
Con Mario Desiati si torna ad una forma romanzo tradizionale, dopo il Due vite di Emanuele Trevi che aveva messo in mostra una scrittura suadente dentro una cornice ibrida che mescolava – in maniera non del tutto risolta – romanzo, autobiografia, saggistica e storia intellettuale. Desiati (1977) è scrittore originario della provincia di Taranto, divenuto noto con il folgorante Vita precaria e amore eterno (Mondadori 2006) che, insieme ad un’altra manciata di testi lucidi e ficcanti, aveva provato a raccontare la pervasività della condizione precaria che dalla fine degli anni Novanta avrebbe travolto per forza di legge almeno due generazioni di italiani ed italiane nate a partire dagli anni Settanta, con tutte le conseguenze psico-sociali che sono sotto i nostri occhi.
Con Spatriati, vincitore di questa edizione, Desiati torna al Sud e a sud, ai temi di tentate integrazioni e necessarie fughe/migrazioni, alle quali sembra alludere il titolo che, in realtà, in alcuni dialetti pugliesi, significa “irregolari” come dice lo stesso Desiati – che si è maldestramente spinto a farne un sinonimo di “queer” –: coloro che non si conformano, che sfuggono a norme e standard socialmente accettati, destinati dunque all’emarginazione o svariate forme di esilio.
Ed è singolare come di esilio a Berlino racconti anche Niente di vero (Einaudi) di Veronica Raimo (quarta classificata e vincitrice del Premio Strega giovani): ironica e sarcastica autobiografia, romanzo di formazione, un divertente e a tratti amaro lessico famigliare anni Venti. Di una generazione in movimento, per quanto fallita dinanzi alla Storia del Secondo dopoguerra, racconta Randagi (Bollati Boringhieri) di Marco Amerighi (terzo classificato) che con una scrittura sapiente intreccia relazioni amicali e amorose di un gruppo di giovani inclini all’auto-sabotaggio esistenziale, al fallimento. Di amore fallito, mestieri obsoleti e personaggi ormai evanescenti alla vita stessa narra invece Quel maledetto Vronskij (Rizzoli) di Claudio Piersanti (secondo classificato) che con delicatezza e colpi di scena racconta di ritorni e ricomposizioni sentimentali.
Il ritorno impossibile e le ferite che lascia l’esilio dalla guerra sono invece la materia pulsante di E poi saremmo salvi (Mondadori) dell’esordiente Alessandra Carati (quinta classificata) che mette in scena paure e dissidi di una famiglia di profughi bosniaci in Italia cucendo vicende individuali, saghe familiari e tragedie internazionali, tornando a quella guerra europea nella quale era già forse possibile leggere i prodromi della tragedia bellica che stiamo conoscendo in Ucraina. Con l’irruzione improvvisa e inattesa della violenza fa i conti anche Nova (Adelphi) di Fabio Bacà (sesto classificato) che mette a tema il ritrovarsi immobile dinanzi ad una violenza inattesa con tutte le conseguenze personali e collettive che la violenza stessa e una mancata reazione porteranno.
Discorso a parte meriterebbe Nina sull’argine (minimum fax) di Veronica Galletta (settima classificata) che narra le vicende tormentate di Caterina, ingegnera alle prese con il suo primo grande incarico: la costruzione di un argine; Caterina deve confrontarsi con la ferocia di un mondo di soli uomini, di politica e amministrazione del territorio e di diffidenze. Galletta lo fa cesellando la figura di un’emigrata dal Sud al Nord (ancora) e dispiegando per larghi tratti un serio e studiato linguaggio specialistico.
E se i libri sono anche il modo nel quale vengono comunicati, vale forse la pena soffermarsi su un momento della premiazione televisiva trasmessa da Rai [] che ha trasmesso la cerimonia di premiazione. Nel ricordare Maria Bellonci, fondatrice e curatrice per svariati decenni del Premio, la conduttrice Geppi Cucciari ha così introdotto il filmato: “Nel 1947 l’Etiopia otteneva l’indipendenza dall’Italia, moriva Al Capone, veniva fondato il Premio Strega: i tre eventi non sono collegati…”. In realtà, è utile ricordare che il primo libro vincitore di questo Premio, nel 1947, fu “Tempo di uccidere” (Longanesi) di Ennio Flaiano: romanzo torbido e morboso che raccontava proprio le vicende di un tenente italiano bugiardo e inaffidabile in Etiopia durante l’occupazione coloniale italiana. Primo e per decenni unico romanzo mainstream che, nel Secondo dopoguerra, si era confrontato con quella esperienza violentissima e gravida di conseguenze per la storia culturale, sociale e razziale di questo Paese. Un romanzo che anni fa aveva trovato la sua rilettura e il suo rovesciamento postcoloniale in Regina di fiori di perle (Donzelli 2007) di Gabriella Ghermandi (con un’imprescindibile postfazione di Cristina Lombardi-Diop) che restituiva il punto di vista nativo sovvertendo d’un tratto sessant’anni di Storia e narrazioni italiane. Anche partendo da qui, forse, bisognerebbe cominciare a rileggere le vicende dello Strega.
E tuttavia, a dispetto di premi, classifiche e pedagogie pubbliche, omissioni e rimozioni, la scrittura letteraria non ha nulla da insegnare: non ci sono manuali scolastici, esami di Stato o cattivi allegati pseudoletterari della stampa quotidiana che tengano. Perché la scrittura letteraria si assume la responsabilità di produrre raffigurazioni destinate ad interrogare incessantemente il nostro stare al mondo. Almeno finché di questo Pianeta surriscaldato non ne resterà solo cenere.