Uno stato che arma i propri cittadini non lo fa in nome della libertà.

Gary Younge, Un altro giorno di morte in America. 24 ore, 10 proiettili, 10 ragazzi, tr. Silvia Manzio, Add Editore, pp. 350, euro 18,00 stampa

In uno dei loro dischi migliori, The Decline, un’opera punk rock del 1999 che denuncia i mali dell’America di fine millennio, i NOFX si rivolgono alle masse di diseredati statunitensi affermando: «siamo munizioni per la lotta di classe». Non un grido di incitamento alla lotta, ma un’amara considerazione sul poco valore che hanno le vite della lowerclass, consumate senza tregua in guerre di gang, incidenti, public shootings e azioni di polizia, all’interno delle dinamiche sociali imposte dal tardo capitalismo (ovvero un prezzo di mercato di 0,14 centesimi per un proiettile da 9mm). «Sono stato povero tutta la mia vita» dice il personaggio interpretato da Chris Pine in Hell or High Water, «e lo sono stati anche miei genitori, e i loro genitori… è come una malattia che passa di generazione in generazione».

Se la povertà è indubbiamente una pandemia (un americano su tre era sotto la soglia di povertà nel 2017), le armi, come un virus che aggredisca un corpo già debilitato, sono legate a doppio filo a questo stato di cose. In Un altro giorno di morte in America, Gary Younge, giornalista del Guardian corrispondente dagli USA, compie un’indagine puntuale della congiunzione dei due fenomeni. Afferma di non voler scrivere un reportage sulla regolamentazione delle armi da fuoco, e mantiene la promessa: il libro copre un giorno civile statunitense (29 ore contando i fusi orari), il 23 novembre 2013, raccontando le vite spezzate di dieci giovanissimi (età media 14,3 anni). Ognuno di questi episodi è accuratamente storicizzato e socialmente inquadrato, così che il libro nel suo insieme è più una denuncia di un sistema malato che dell’irrazionale amore statunitense per le armi, trattato come effetto collaterale di una più ampia macchina fuori controllo.

Sette neri, due ispanici e un bianco. Ho sottolineato l’importanza della classe sociale nella comprensione di questo fenomeno, ma a onor del vero non tutti gli sfortunati protagonisti delle storie di Younge rientrano nel bacino sconfinato dei poveri d’America. Tutti, però, scontano le storture e le assurdità di una società inerentemente iniqua, e la maggior parte proviene da famiglie affette in misura diversa dalla routine massacrante imposta all’evanescente middle class statunitense, in lotta perenne per evitare di sprofondare nel limbo dell’indigenza. Quest’ultima, priva di tutele efficaci, è più che altro un’anticamera alla tragedia che uno stadio di mobilità verticale come vorrebbe il sempre logoro Moloch del sogno americano: basta perdere il lavoro o restare incinta per vedere peggiorare le proprie condizioni economiche in maniera vertiginosa; un piccolo incidente con le forze dell’ordine può condurre nel labirinto senza uscita dello spietato sistema legale americano, tristemente noto per accanirsi in maniera diseguale sui gruppi etnici della nazione.

Il discrimine sociale (così come quello etnico) resta, ma a leggere Un altro giorno di morte in America si ha l’impressione che nessuno sia al sicuro. Dal terribile South Side di Chicago (più mortale dell’Iraq a giudicare dalle statistiche) alle aree rurali del Michigan, non c’è giorno in cui volontà o incidenti non uccidano qualcuno. Un colpo partito per caso, un’arma con il colpo in canna dimenticata su una scrivania nel momento sbagliato, un regolamento di conti per futili motivi tra adolescenti cooptati dall’esercito di gang che popola le periferie di ogni città americana.

La risposta di molte delle famiglie intervistate è la stessa: «non sono riuscit* a proteggerl*», drammatica presa di coscienza dell’essere pura carne da cannone per una società spietata e predatoria. L’ethos delle armi, eredità frontieristica della cosiddetta six-gunmystique (il riferimento è al saggio seminale di John G. Cawelti), è affrontato da Younge con enfasi sull’assurda propaganda dell’NRA, un’associazione che incarna, alla luce del sole e con un’arroganza che sarebbe naif se non fosse letale, tutto ciò che di peggiore si nasconde nelle vuote promesse di libertà del capitalismo.

La sicurezza che si vorrebbe collegata al possesso di una pistola non è altro che una scellerata e capillare campagna di marketing fatta sulla pelle degli ultimi con la connivenza di un apparato statale (legalmente) corrotto. «Il mio libro è l’istantanea di una società che rende queste morti possibili, e la cui cultura politica è del tutto incapace di creare un contesto un grado di evitarle», leggiamo nell’introduzione.

Un reportage duro e militante, da far leggere a quella parte politica italiana che ha recentemente affermato di voler rivedere le leggi sulla legittima difesa con la collaborazione della lobby delle armi. Una dichiarazione scellerata che non tiene conto di quello che è forse il messaggio alla base del libro di Younge: uno stato che arma i propri cittadini non lo fa in nome della libertà, ma sta venendo meno ai suoi obblighi basilari di protezione degli stessi, piombando proprio coloro che più di tutti dovrebbe proteggere in uno stato di natura hobbesiano crivellato di proiettili. Una vera e propria guerra che, nel solo 2017, anno peggiore dell’ultimo ventennio, è costata la vita a quarantamila persone.