Il recente successo della serie TV di Netflix “La regina degli scacchi”, per la regia di Scott Frank – che su Rotten Tomatoes totalizza una percentuale di approvazione del 99%, di critica e 95% di pubblico – ha riportato sotto la luce dei riflettori uno scrittore atipico e poco conosciuto come Walter Tevis. E, forse non a caso, a inizio 2021, Mondadori ha annunciato che “l’intera opera di Tevis è in corso di ripubblicazione presso gli Oscar”.
La regina degli scacchi è la penultima opera data alle stampe da Tevis, autore di una sorprendentemente limitata quantità di narrativa — solamente un’antologia di racconti di fantascienza, Lontano da casa (Far from home, 1981) e sei romanzi, in venticinque anni di carriera: gli ultimi due, appena un anno prima della morte. La particolarità è che di questi sei, ben quattro hanno avuto trasposizioni cinematografiche di successo internazionale:
- Lo spaccone (The hustler, 1959), portato sul grande schermo nel 1961 da Robert Rossen, con Paul Newman protagonista nel ruolo di Eddie lo Svelto;
- L’uomo che cadde sulla terra (The man who fell to earth, 1963), che divenne nel 1976 un film per la regia di Nicolas Roeg, con David Bowie nel ruolo protagonista;
- La regina degli scacchi (The queen’s gambit, 1982), sette puntate Netflix, programmate nel 2020;
- Il colore dei soldi (The color of money, 1984), che è il seguito di Lo spaccone a venticinque anni di distanza, con gli stessi protagonisti; è stato portato sul grande schermo nel 1986, esattamente venticinque anni dopo il film di Rossen, ancora con protagonista Paul Newman e per la regia di Martin Scorsese.
Cosa c’è alla base di questo particolare “record?” È una qualità connaturata al modo di scrivere di Tevis, dato che il suo primo romanzo fu quasi istantaneamente portato sullo schermo, oppure costruiva le sue opere in modo da apparire appetibile per Hollywood?
Wiki Tevis: l’uomo che inventò lo Spaccone
Tevis nasce nel 1928 a San Francisco e muore a soli 56 anni a New York, nel 1984, l’anno in cui si pubblica il suo ultimo romanzo. Quando all’età di dieci anni viene ricoverato in un sanatorio per una malattia reumatica, i genitori si trasferiscono nella contea di Madison, Kentucky, dove hanno ottenuto una piccola proprietà terriera; così nel ’39 Walter attraversa da solo in treno quasi tutti gli Usa per raggiungerli dalla costa ovest.
Da adolescente si divide tra gioco del biliardo e passione per la lettura, libri di fantascienza presi in prestito in biblioteca. Dopo aver brevemente prestato servizio in Marina nel Pacifico, negli ultimi messi della guerra mondiale, si diploma e poi si laurea all’università del Kentucky. Lavora in una sala da biliardo e si iscrive allo Iowa Writers’ Workshop, per cui è forse naturale che il suo primo romanzo pubblicato, Lo spaccone, sia ambientato in questo mondo: una storia di confronti e sconfitte, un romanzo di maturazione che già contiene due elementi caratteristici della prosa di Tevis, vale a dire l’insanabile solitudine del protagonista e la contrapposizione tra personaggi tramite il gioco, come metafora del conflitto narrativo.
C’è infatti da sottolineare che i sei romanzi dati alle stampe dall’autore si dividono i due metà: tre sono fantascienza e tre ambientati in quello che possiamo chiamare mondo del gioco — scacchi o biliardo.
Quasi subito Lo spaccone viene portato sullo schermo, con una sceneggiatura di Sidney Carrol e Rossen stesso. C’è da dire che il romanzo si presta bene, ha un ritmo incalzante ed è organizzato su scene madri che vedono la fortuna altalenante del protagonista, così che la posta in gioco (con un doppio significato) per il lettore si alza: magistrali sono la partita durata 25 ore tra Eddie e Minnesota Fats e il finale, che come sempre in Tevis chiude la vicenda narrativa ma lascia aperta la curiosità del lettore. Già in questo primo romanzo si manifesta un altro tema della poetica dell’autore: il rapporto travagliato tra il protagonista maschile e una controparte femminile, inclusi problemi di dipendenza (da alcol o medicinali). In questo caso la fragilità di Sarah la porta a togliersi la vita.
Il regista Robert Rossen è stato a sua volta in gioventù appassionato di biliardo, e forse per questo riesce a portare a termine la versione cinematografica dove altri non erano riusciti (per esempio Frank Sinatra, interessato al ruolo protagonista), forse perché troppo concentrati sul fascino del gioco e meno sulla psicologia dei personaggi. La trama del film segue piuttosto fedelmente il libro: oltre a Newman, il cast comprende Piper Laurie (Sarah) e Jackie Gleason (Minnesota Fats), e ottiene un notevole successo di pubblico e critica; nel 2008 è stato dichiarato sesto in una classifica di migliori pellicole di tutti i tempi sul mondo dello sport.
L’ultima opera di Tevis – Il colore dei soldi, è un sequel esplicito de Lo spaccone, per il quale l’autore scrisse anche un trattamento cinematografico, rifiutato però dal regista Martin Scorsese, poco interessato a un revival del personaggio di Minnesota Fats; in questo modo si perde il senso del sequel, a parte la presenza di Paul Newman ancora nei panni di un Eddie lo Svelto invecchiato.
A questo punto può sembrare che io attinga indiscriminatamente dalla relativa voce Wikipedia: infatti è così ma è solo perché ne sono io l’autore 🙂
L’uomo che cadde sulla terra
Il secondo romanzo di Tevis è, forse sorprendentemente, considerato il successo del primo, un’opera di fantascienza, per certi versi atipica perché pur inquadrandosi negli stereotipi del genere, li affronta da un punto di vista assolutamente originale. Il tópos dell’invasione aliena è visto dalla parte dell’extraterrestre, giunto sulla Terra in incognito per cercare un modo di trasportarvi gli abitanti del suo pianeta morente, Anthea, devastato da una guerra atomica. L’intera storia è raccontata dal punto-di-vista di Thomas Jerome Newton (è questo il nome terrestre adottato dal protagonista). Anche qui è la solitudine intellettuale la principale caratterizzazione, favorita dall’alienità del personaggio, il quale si dimostra comunque agli occhi del lettore notevolmente più umano dei terrestri con cui si trova a interagire. Questa scelta è perfetta per costringere i lettori a osservare come in uno specchio i risultati raggiunti dalla civiltà: «A volte ci fate l’effetto di scimmie sguinzagliate nei musei e armate di coltelli per squarciare i quadri e di martelli per abbattere le statue» Newton dice a un certo punto all’ingegner Nathan Bryce, che ha scoperto il suo segreto.
Urania pubblica una traduzione italiana praticamente subito, nel ’63, poi ripresa nel 1976 in occasione della distribuzione sugli schermi italiani del film di Nicolas Roeg; il volume contiene anche la traduzione della sceneggiatura originale, a firma di Paul Mayersberg. Una nuova traduzione del 2006 (Ginella Pignolo) per Minimum Fax fa risaltare alcune assurdità dell’edizione Urania: la rimozione dei titoli delle tre parti in cui il romanzo è diviso, che contengono riferimenti culturali a Bruegel il Vecchio e a una fiaba dei fratelli Grimm, nonché alcune allusioni politiche nel testo; per esempio, nel terzo capitolo Pignoli traduce: «C’era sempre la probabilità che qualcuno di loro fosse un vero Ezra Pound, capace di non rinunciare mai alla barba e diventare un brillante e stridulo fascista, anarchico o socialista.» dove nell’edizione Mondadori, che non riporta il nome di chi ha tradotto, si legge un più anonimo: «C’era sempre la probabilità che almeno qualcuno di loro fosse un vero idealista capace di non rinunciare mai alla barba e diventare anarchico o socialista.» La filosofia della collana Urania prevedeva evidentemente che la fantascienza fosse un genere asessuato e apolitico, anzi più politicamente sterile che sessualmente — e risultava inconcepibile che un riferimento al fascismo apparisse sulle sue pagine.
La versione cinematografica, uscita tredici anni dopo, si avvale della presenza eccellente e allusivamente androgina di David Bowie nel ruolo protagonista (il suo primo ingaggio cinematografico; un frame del film apparirà persino sulla copertina del suo album Low). Forse la scelta è dovuta al fatto che Bowie è inglese come Roeg, malgrado la produzione sia americana, e al personaggio dell’alieno umanoide Ziggy Stardust che il cantante interpreta sul palco a partire dal suo quinto album in studio.
Anche in questo caso la trama ricalca il romanzo, il significato narrativo è lo stesso, e la sceneggiatura rende molto bene la disperata solitudine esistenziale di Newton. La co-protagonista, che nel romanzo si chiama Betty Jo e nel film Mary Lou (recitata da Candy Clark), si rivela un personaggio molto simile a Sarah del primo romanzo. Si legge sulla quarta di copertina dell’edizione Urania del 1976, che L’uomo che cadde sulla Terra può essere interpretato come la storia di un extraterrestre che diventa ricchissimo e potentissimo vendendo all’industria i mirabolanti segreti tecnologici della sua lontana civiltà, oppure come una parabola con risonanze cristologiche, suggestioni di una seconda “discesa sulla Terra” e di un secondo martirio.
Macchine, androidi e l’uomo che dalla terra invece se ne andò
Dopo aver insegnato letteratura e scrittura creativa all’università dell’Ohio a Athens, nel 1978 Tevis si trasferisce a New York. Durante la docenza aveva constatato che tra gli studenti universitari stava precipitando la conoscenza della letteratura inglese; quest’idea è alla base del suo terzo romanzo, Mockihgbird (1976), opera di fantascienza classica ambientata in un XXV secolo in cui la lingua scritta è ormai prerogativa dei robot androidi. Il romanzo è tradotto in un primo tempo da Roberta Rambelli per l’Editrice Nord, con il titolo Solo il mimo canta al limitare del bosco, e (bizzarramente) nello stesso anno anche da Mondadori negli Oscar, con il titolo Futuro in trance, traduzione di Silvia Stefani. La traduzione di Rambelli sarà poi recuperata con lo stesso titolo da Minimun Fax nel 2015 e adesso si attende, immagino, la riedizione Oscar Mondadori. La divaricazione tra i due titoli italiani è dovuta al fatto che il mockingbird è un uccello del Nordamerica dell’ordine dei passeriformi, in italiano “mimo”, un titolo che nella nostra lingua risulterebbe poco appetibile.
La trama. Macchine androidi hanno soppiantato gli esseri umani in qualsiasi attività, sia intellettuale che manuale; quasi come in La macchina del tempo di Wells, l’umanità è impegnata a fare sesso, fumare spinelli e assumere tranquillanti forniti dal governo. La situazione produce una disastrosa denatalità che, curiosamente, coinvolge anche i robot perché nessuno riesce a riparare i robot guasti. La storia mette in scena tre protagonisti: un professore universitario, Paul Bentley, che impara da autodidatta a leggere quando si imbatte in vecchi libri e documenti vestigia di un passato vivo e interessante; Mary Lou, giovane donna dal carattere ribelle che ha una relazione con Bentley; infine il robot Robert Spofforth, da secoli rettore dell’università di New York, appartenente alla classe più intelligente degli automi, custode della conoscenza del passato: il suo obiettivo esplicito sarebbe suicidarsi per la delusione, ma l’atto gli è precluso dalle inibizioni di chi l’ha progettato.
Il San Francisco Chronicle definì il romanzo “un sequel di Fahrenheit 451”. Il romanzo non venne mai trasposto in versione cinematografica, benché in un’intervista Tevis abbia dichiarato di aver ceduto i diritti di una trasposizione, che nelle intenzioni della casa di produzione PBS avrebbe dovuto rappresentare il seguito del film TV tratto da La falce dei cieli di Ursula LeGuin uscito nel 1980. Del progetto non si fece nulla.
Due anni più tardi, Tevis pubblica il terzo e ultimo romanzo di fantascienza, The steps of the Sun (A pochi passi dal sole, Urania Mondadori 1983). Il titolo è tratto da una poesia di William Blake, The sun-flower, citata in incipit dell’originale inglese ma che, è il caso di precisarlo?, scompare dalla traduzione italiana, lasciando nel vago il richiamo del titolo. In un certo senso la trama rovescia L’uomo che cadde sulla Terra, perché qui è il protagonista umano, Ben Belson, che cerca su altri pianeti le risorse che permettano una sopravvivenza della civiltà. La Terra è infatti strangolata da una crisi energetica, che spinge questo magnate del carbone a costruire un’astronave per cercare risorse nello spazio extrasolare.
Tornano i temi della solitudine, della dipendenza da sostanze chimiche e nell’incomprensione dell’umanità: le autorità privano infatti Belson della cittadinanza e gli impongono di ritornare sulla Terra insieme alla sua équipe di scienziati e tecnici. Il protagonista si rifiuta, così rimane da solo per sei mesi sul pianeta al quale ha dato il suo nome: è l’ennesimo personaggio chiuso nella sua solitudine, come già era successo a Newton dopo la cattura e l’imprigionamento da parte della Cia.
Nell’ultima parte Belson, tornato sulla Terra, è costretto a sfuggire alla giustizia americana che lo tratta da pirata, e trova asilo politico nella Cina comunista. Tramite la responsabile di una ditta farmaceutica cinese, riesce a riconciliarsi con la giustizia Usa e a fare ritorno in patria dove viene finalmente accolto dal Presidente. Incredibilmente, il nome della co-protagonista cinese, che nell’originale è Mourning Dove Soon, dove Mourning Dove (“tortora in lutto”) è il familiare americano per la zenaida macroura o tortora americana, diventa “Soon Colomba del Mattino”: mourning è diventato così morning.
Just be a queen
Un anno prima era uscito per l’editore newyorchese Random House The queen’s gambit, che sarà tradotto in italiano come La regina degli scacchi solo un quarto di secolo dopo, per mano di Angelica Cecchi, e apparso per Minimum Fax.
La protagonista Beth Harmon è un’orfana internata in un’istituzione della provincia americana, negli anni Cinquanta, che si riscuote dalla propria apatia grazie a una naturale predisposizione per il gioco degli scacchi. Dopo aver imparato a giocare da un custode del collegio, scopre che la strategia delle mosse è così totalizzante da diventare il centro della sua vita, al punto che persino le sue relazioni sentimentali adulte graviteranno intorno a quel mondo.
Beth è, se non un prodigio, quantomeno una mente fuori dall’ordinario, e ancora una volta questo fatto è l’origine della sua solitudine, oltre al dettaglio di essere l’unica donna in un ambiente ritenuto maschile. La storia decolla dalle prime pagine come un vortice, condotta in perfetto equilibrio tra interno — il racconto delle partite che è sufficientemente “tecnico” da non scontentare gli esperti ma non così assolutizzante da allontanare i lettori a digiuno — e esterno, la limitata vita sociale di Beth, che oltre ad assottigliarsi sempre più si trasforma in un’appendice della scacchiera, e il lettore è portato a valutare le sue interazioni con altri personaggi usando lo stesso metro dei suoi avversari nel gioco — finché si arriva quasi senza accorgersene allo scontro finale.
Tra tutte le sue opere, La regina degli scacchi è forse quella più esemplare per rappresentare la capacità dell’autore di costruire storie su più livelli: innanzitutto una decisa connotazione personale, una cifra stilistica che è la solitudine del protagonista, vuoi per fatti oggettivi (la sua alienità), vuoi per altri tratti, in equilibrio tra influenza dell’ambiente e psicopatia — o ossessione, se preferite; in secondo luogo, per quanto complessa la storia è sempre rigorosamente costruita intorno a un unico conflitto che entra in scena quasi subito e viene risolto solo nel finale, in un progressione di scene-madre nelle quali Tevis alza sempre la posta in gioco, senza che il lettore sia mai sicuro dell’happy end. Questo è mostrato in maniera esemplare in La regina degli scacchi, dove il gioco di strategia è la metafora letteraria del conflitto. Se si confronta la trama del romanzo con quella della serie TV, si rimane stupiti per la quasi perfetta sovrapposizione, un’aderenza ancora superiore a quella delle sceneggiature tratte dagli altri libri. A parte dettagli poco rilevanti per il plot, come l’attenzione maniacale per il dettaglio d’epoca, che aggiunge profondità al racconto, la sceneggiatura è ricalcata quasi centimetro per centimetro sul testo. E il romanzo di Walter Tevis è davvero una macchina da guerra narrativa, che instaura un ritmo incalzante pur essendo totalmente privo di thrilling, senza una singola scena di violenza, e senza che la volontà di un personaggio prevarichi quella di un altro: il conflitto sembra integralmente trasferito sulla scacchiera, anche quando è una guerra civile tra Beth Harmon e se stessa.
E in fondo cos’è la letteratura se non una partita a scacchi tra autore e lettore?