Si comincia tardi a ricordare, scrive Nanni Cagnone. Solo i derelitti ricordano, man mano che la vita cade loro addosso. Frananti che per caso si trovano sul pianeta. Monsieur Bovary invece, con metodo tutto suo, e nel preciso presente, racconta eventi aguzzi, dichiara eloquenze irresistibili su certi scrittori, mette in campo dichiarazioni di poetica che non danno scampo (alcune delle quali s’erano conosciute con sommo gusto, per esempio, in Discorde, del 2015). In queste pagine l’autore non distoglie mai l’attenzione verso storture storiche e letterarie che fanno storcere il naso e assicurano sferzate che dovrebbero far tremare i polsi ai destinatari.
D’altronde oggi la disapprovazione lascia il tempo che trova. Nanni questo lo sa, e si capisce bene come qui (e altrove) lui se ne fotta. E blandire non fa parte del suo mestiere. Se qualcuno ancora chiede il perché le sue opere giammai siano pubblicate dagli editori di casa nostra, quelli conosciuti ai più, basti leggere lo stralcio: “[…] Franco Fortini chiamò per chiedermi se avevo ricevuto la sua mai inviata lettera, e dire che nel mio ancora inedito Vaticinio c’erano sequenze ammirevoli, ma lui avrebbe usato le forbici. Tuttavia ribadì che intendeva proporre il libro a Einaudi. ‘Lasci perdere’ gli dissi. ‘Io non sarò Eliot, ma lei certamente non è Pound’ […]”. Ogni rapporto finì lì, col critico e con l’editoria.
Ma Dites-moi, Monsieur Bovary ha ben altre altezze (oltre, e non di secondaria importanza, alla curatissima grafica e composizione), quando ci porta nella ligustica essenza dell’autore, con la familiarità genetica verso il fratello pittore, e la profusione amorosa verso il popolo degli alberi. Uomini e piante (di una Liguria “meditativa” di muri a secco e discosta dal mare) leggendari nella loro luccicante vicinanza, mai perduti nonostante il continuo nomadismo. Decine e decine di traslochi lungo l’Italia che hanno rimestato continuamente la moltitudine dei libri, svoltando l’attenzione con la tipica casualità dei trasporti.
In tutto il libro vige la legge della terza persona, scelta formale che proietta Cagnone dentro l’attualità trascinando avvenimenti, dialoghi e personaggi. Siano essi controversi familiari, avversari, o amici (non rari questi ultimi, e purtroppo per lo più scomparsi). Gli incontri sono tanti, e possiamo dire d’ogni genere e tendenza: armonici, amorosi, dissidenti, urticanti, sessualmennte ricreativi, anche talvolta garbati. Ma per tutti c’è una continuità di vedute, un impegno d’umana giustizia mai docile e che ha un suo fragore certamente non adatto all’attuale costume letterario. “[….] L’unico poeta italiano del Novecento che mi va di leggere è Amelia Rosselli. Non fanno per me i salottieri sprechi di D’Annunzio, le stridule banalità d’Ungaretti, i mandolini di Montale Bertolucci ed altre creature aromatiche, l’esilità di Saba Penna Sbarbaro, il soffocante meditare di Luzi, la pensosa serenità di Sereni, l’involuta sincretica maniera di Zanzotto e Sanguineti […]”.
Ma nel contempo ricorda amicizie che vanno oltre il valore letterario, come quelle con Giuseppe Pontiggia, Emilio Villa, Germano Lombardi, perfino Valentino Zeichen. È costume di Cagnone menzionare affettivamente donne e uomini che hanno varcato la soglia del suo pensiero e della sua vita. Sono momenti di quieta e controllata benevolenza, in cui s’intuisce un carattere che non preclude sentimenti profondi, e che s’accompagnano agli altrettanti giudizi lapidari. L’onore della scrittura poi, distinta dall’indulgenza, è quasi sempre un attentato ai benpensanti che allignano intorno. L’affezione va anche alla Coliseum, la casa editrice fondata da Cagnone nel 1986 e che mise in campo in soli sette anni titoli “fra loro non indifferenti” di saggistica, poesia e narrativa: un bosco di opere non consuete (pensiero ellenistico, arabo e persiano, mistica ebraica rinascimentale, filosofia narrativa, eresie e passioni superstiti delle avanguardie) trattate da una cura tipografica che lasciò il segno.
Qualche tono scanzonato non manca nelle pagine di Dites-moi, Monsieur Bovary, come se non si volessero mortificare i piaceri, talvolta dispendiosi ma certamente dotati, che hanno elogiato di quando in quando la vita. Il tutto però esortato all’odio per la mediocrità. Dilettarsi sì con film western e d’avventura, mai e poi mai accettare una poesia priva di “magnificenza, splendore o almeno un distinguibile cip-cip”. In questo libro sta l’inevitabile, e gli inevitabili. Fuori, o appena accennati, i “cultori dell’inutile”. Può sembrare un’insistenza sulla scontentezza. Degli altri, certamente lo è.