Nell’ennesima estate ad alto tasso di xenofobia, anche l’alto Friuli ha visto purtroppo moltiplicarsi le iniziative pubbliche di stampo razzista, il cui fine palese è sempre (banalmente) quello di contrastare l’arrivo dei richiedenti asilo nelle locali strutture d’accoglienza.
Durante alcune di queste manifestazioni, però, diversi cittadini della Carnia – ignorati dalla stampa locale – hanno pensato bene di rispondere distribuendo ai passanti dei volantini contenenti alcune poesie di un certo Leonardo Zanier.
Quando scappa detto scritto: “la propensione ad emigrare dei friulani”. In realtà è come se si dicesse: “la propensione a cadere dalle impalcature dei muratori” oppure “la propensione alla silicosi dei muratori”.[1]
Per questa ragione bene ha fatto uno dei due autori, Paolo Barcella, ad avvertirci già nell’introduzione che la memoria della “nostra” emigrazione passata non è affatto garanzia, né premessa di comprensione dell’attuale (im)migrazione. Anzi. Statistiche alla mano, Barcella dimostra come il consenso della Lega delle origini, con il suo portato di antimeridionalismo razzista, fosse totalmente fondato sull’elettorato delle valli lombarde, lungamente spopolate dall’emigrazione. [2]
E allo stesso tempo benissimo ha fatto il secondo autore, Valerio Furneri, a impreziosire la sezione dedicata allo studio critico delle poesie di Leonardo Zanier ricordandoci che proprio la “nostra” emigrazione è all’origine della maggior parte degli stereotipi che siamo soliti attribuire grottescamente ai migranti contemporanei.[3]
La netta suddivisione dell’opera in due parti distinte, con il lavoro politico-pedagogico di Zanier separato dall’esegesi della sua poetica, magari non rende propriamente giustizia alla poliedrica fluidità caratteristica del personaggio. Ma diventa quantomai essenziale in un’epoca, la nostra, di difficili sovrapposizioni tematiche e di eterna suddivisione dei campi d’azione. Un’epoca nella quale, non a caso, l’intellettuale (organico o meno) deve subire un sezionamento ad hoc, allusivamente mirato a celarne o scomporne chirurgicamente l’originario marxismo – forse per sopraggiunta incomprensibilità di quest’ultimo.
In nome di questo “filo rosso” che lega la sua attività educativa a quella intellettuale, Leonardo Zanier fu analista attento e critico di ogni dimensione legata alle migrazioni.
Da giovane insegnante nella scuola di formazione professionale di Comeglians (1955), si rese conto, per esempio, di quanto la scolarizzazione legata al mero apprendimento dei mestieri, oltre a produrre soltanto “braccia” da esportazione pronte per lo sfruttamento, fosse anche responsabile della progressiva desertificazione sociale del Friuli montano e periferico.
Alla fuga degli operai e dei muratori, faceva seguito la “fuga” delle attività commerciali e dei luoghi di intrattenimento.
Non fu un caso se, proprio mentre affrontava questa doppia problematica, Zanier fu messo alla porta dagli amministratori locali democristiani, anche lui con l’eterno, ricorrente pretesto dell’inadeguata “condotta morale”.
Zanier giunge in Svizzera di lì a poco, sotto l’etichetta del lavoratore “stagionale”: condotto freddamente in una delle “baracche” asilo della manovalanza italiana, ne esce il giorno stesso, recandosi in un albergo nel quale affitterà una camera, portando poi il conto al padrone. “La mia vita da stagionale, se giuridicamente è durata due anni, in realtà è andata avanti poco più di mezz’ora: il tempo di arrivare alla baracca e abbandonarla.”
In questo aneddoto, ben oltre la sfacciataggine del tecnico specializzato (quindi privilegiato nei rapporti di forza), è condensata metaforicamente l’attività che Zanier intraprenderà con fermezza dal 1957 in poi.
Se l’emigrazione non è una sciagura naturale, né una piaga biblica, ma il semplice prodotto di una scelta dettata dalle condizioni economiche – sulla quale speculano due nazioni, quella di origine e quella di arrivo – è quantomai necessario che insieme al “mestiere” il lavoratore apprenda anche gli elementi basilari della propria emancipazione.
E si riconosca perciò nell’ossimoro che segnerà anche l’inizio dell’attività poetica dello stesso Zanier: Libers… di scugnî lâ. “Liberi… di dover andare”. Liberi di cominciare a (de)scrivere la propria vita in un friulano nuovo, spurio, che non elegga una finta heimat come paradiso di nascita o di ritorno, ma sia strumento realistico di denuncia e di cancellazione della retorica legata alle valige di cartone.
L’ambito ideale nel quale creare questa coscienza è quello delle “Colonie Libere Italiane” in Svizzera. Una rete di strutture educative fondate dagli esuli antifascisti negli anni Venti, che però alla fine degli anni Cinquanta si vedevano conteso il campo d’azione dalle sempre più forti “Missioni” di stampo cattolico.
Il progetto lungimirante di Zanier è di riuscire ad adattare i programmi pedagogici delle Colonie alla nuova emigrazione di massa italiana (proveniente non più dal nord, ma dal meridione), sfruttando la sensibilità e il paternalismo dei primi governi di centrosinistra, tanto quanto l’interesse crescente del PCI verso una “classe emigrante”, fino ad allora invisibile e totalmente trascurata.
Ciò che appare incredibile, ancora in termini di stereotipi, è che la Svizzera degli anni Cinquanta/Sessanta fosse tutto fuorché la gentile sintesi di banche, orologi e cioccolate.
La Confederazione elvetica instaurò, all’alba dell’immigrazione italiana, un ferreo sistema di sorveglianza, pedinamento e schedatura degno di un Paese dell’Est. Ed è forse per questo che è durato praticamente quanto il Muro di Berlino[4].
Fino al 1964 la presenza di lavoratori stranieri era fondata sulla rotazione sistematica: si prediligevano i permessi brevi, che azzerassero i ricongiungimenti familiari e con essi la presenza di minori – visti come un peso gravoso sul sistema scolastico e sanitario elvetico. Da questa legislazione nacquero le esperienze di clandestinità dei “bambini nascosti” che dovevano vivere segretamente reclusi negli appartamenti affittati ai loro genitori[5].
Nonostante queste discriminazioni – oppure proprio in funzione di esse – i movimenti xenofobi e ultranazionalisti svizzeri proliferavano: nel 1961 fu fondata l’ “Azione nazionale contro l’inforestierimento (sic.) del popolo e della patria”, che prese a ostacolare la presenza degli studenti italiani nelle scuole, proprio quando i nuovi accordi bilaterali del 1964 cominciarono a concedere questo diritto ai figli degli emigranti.
Il paradosso fu totale poi quando, dopo il 1964, le amministrazioni locali elvetiche cominciarono a impedire che i figli degli immigrati italiani frequentassero le scuole private italiane “se i loro genitori non avevano un chiaro piano di rientro in patria”. Ora il problema non erano più i minori, ma i futuri maggiorenni italofoni, che in quanto tali potevano procurare dei potenziali problemi di integrazione.
(Fotografie di manifestazioni di lavoratori italiani in Svizzera. Il tentativo di discriminare ed espellere la manodopera straniera da parte delle formazioni nazionaliste elvetiche andò avanti fino al 1970, quando fu indetto il referendum sull’“iniziativa Schwarzenbach”: un progetto di riforma costituzionale che avrebbe ridotto drasticamente – circa al 10% – il tetto della presenza degli immigrati nel Paese. Grazie alla mobilitazione delle associazioni sindacali (e a qualche scrupolo della Confindustria svizzera) la proposta fu bocciata col 54% dei voti. Per effetto di strani corsi e ricorsi storici, pochi giorni fa gli svizzeri hanno bocciato una proposta referendaria molto simile.)
Palese che in questo clima Leonardo Zanier abbia goduto delle più ampie attenzioni poliziesche per circa tredici anni (“insieme al non rinnovo del permesso di lavoro o di soggiorno, si praticavano, più raramente, anche le espulsioni. Si può dire che le schedature favorirono la rotazione e ritardarono le politiche di integrazione”). Come scontato fu il tentativo sistematico di boicottaggio economico delle Colonie Libere, cui veniva rimproverato di avere come obiettivo formativo quello di “evitare l’estraniamento e la passività morale e civile di uomini con una coscienza, personalità e dignità morale e materiale, che deve essere costantemente difesa ed elevata per una più giusta ed equa società.“
Quando nel 2012 uscì l’edizione araba di Libers… di scugnî lâ il traduttore, Ayad Alabbar, confessò: “Non pensavo che quell’uomo stesse parlando di me, anzi, di milioni di altri uomini che io conosco e di altri che non ho mai sentito, mai conosciuto affatto!”.
È questa, probabilmente, la testimonianza più rilevante della grandezza del poeta Leonardo Zanier – quello utilissimo per scongiurare sit in leghisti, per intenderci.
E anche se è vero, come sottolinea Valerio Furneri, che Zanier fu sempre meticoloso nelle correzioni ortografiche e nelle varianti, per aderire ai canoni della koinè, è altresì percepibile in ogni verso scritto la sedimentazione originaria del suo accento, la forma imperfetta “dialettale” che sola può aggredire le convenzioni e il conformismo tradizionale.
Fin dalla prima raccolta (Libers, appunto) la poetica di Zanier rivoluziona gli schemi vetusti della migrazione-con-la-e-davanti.
Spazzate via l’autocommiserazione e la rassegnazione; caduta la mitologia del “buon friulano”, silenzioso e accondiscendente in terra straniera; scomparsa la narrazione autocelebrativa della vita all’estero – che anche Furneri sottolinea essere una compensazione delle pratiche di sfruttamento lavorativo reali – ciò che finalmente emerge con prepotenza sono le modalità dell’inganno e dell’oppressione, l’atomizzazione successiva alla desertificazione culturale, la continuità storica e di confine tra l’emigrante proletario e le figure dei soldati mandati al macello nella Grande Guerra.
In Zanier persino la bellezza del paesaggio montano natìo (come nella poesia La bielezza da Cjargna) viene dipinta come vacua scenografia parietale, che si erge alle spalle della crisi sociale ed economica del territorio vissuto.
Una crisi che porta i personaggi delle sue liriche ad apparire come figure straniate, spesso beckettianamente in attesa – alla fermata di un autobus o in una stazione ferroviaria.
E da questo grembo di alienazione storica, ecco nascere i cramars marochins: un vero capolavoro di alchimie semantiche, fusione antropologica di coloro che furono gli antichi “venditori carnici di spezie, droghe e tessuti, che raggiungevano l’estremo nord Europa e l’est russo, ma venivano sfruttati dai grossisti di Salisburgo e Venezia” coi moderni venditori ambulanti (ancor oggi detti “marocchini” per idiozia antonomastica) costretti a camminare per chilometri, stracarichi, col sole torrido e con la pioggia battente, per vendere oggetti prodotti da altri sfruttati e per conto dei più moderni sfruttatori.
Nota conclusiva:
Per molti friulani la conoscenza delle poesie di Leonardo Zanier non fu merito delle università o degli istituti, delle associazioni o delle fondazioni, ma degli ensemble musicali che vollero – in assoluta coerenza con la sua vita e la sua poetica – tradurre i suoi componimenti in note folk-rock. Una menzione speciale, a questo proposito, va fatta per gli Arbe Garbe, che da veri rivoluzionari della musica locale, sul finire del secolo scorso arrangiarono la poesia San Martin (San Martino), nella quale Zanier irrideva con satira pungente una delle figure sacre più diffuse in Svizzera – riprodotto anche nella banconota da cento franchi – insieme con il suo messaggio di ipocrita carità cristiana.
Gli svizzeri
anche se non lo hanno inventato
han capito di sicuro
il segreto della carità:
dare ciò che non serve
ma con grazia
meglio ancora con clamore:
spendere due per dare
e tre per farlo sapere
Guardate i cento franchi svizzeri
San Martino, gran cavaliere
grande di soldi, di beni e di modi
Lui tutto vestito davanti ad un
pover’uomo nudo e malnutrito
lui tutto vestito di ferro, dalla testa ai piedi
e sotto una camiciola e braghe di lana
E tra lana e pelle, tela sottile
perchè non gli abbia a prudere troppo
e sopra il ferro una mantellina
lunga e stretta sicuramente rossa
Mezza davanti e mezza dietro
per il gusto del rumore, per il gusto del colore
la stoffa a sbattere nel vento
sopra il cavallo che galoppa
Un ghinghero in più, segno simbolo,
imbroglio, come oggi una cravatta
“… e visto il povero
scese da cavallo
trasse la spada…”
E taglia via
metà della metà
della sua mantellina-cravatta
giusta tanto
da coprirgli l’uccello
Note
[1] Leonardo Zanier Un primato del Friuli: l’emigrazione. Settembre 1975 (cit. p. 46)
[2] “L’obiettivo di Bossi era impedire che si riconoscessero agli stranieri i diritti che le associazioni e i sindacati italiani all’estero avevano chiesto fino a pochi anni prima per i nostri connazionali. Soprattutto tra i vecchi Gastarbeiter si alzavano voci di chi chiedeva che gli stranieri in Italia subissero le stesse condizioni toccate a loro, quasi ricavassero una sensazione di giustizia dalla restituzione dell’ingiustizia subìta. In altri termini, proprio la memoria delle vessazioni passate li portava ad esigere un vendicativo risarcimento” (p.25)
[3] “Tra gli stereotipi più diffusi vale la pena ricordare quello sul temperamento focoso degli italiani, pronti a tirare fuori il coltello quando si tratta di questioni d’onore. Nel corso degli anni questo cliché è stato, almeno in Germania, trasferito sull’immaginario della comunità turca. Lo stereotipo dell’italiano ‘tiratore di coltello’ (Messerstecher in tedesco) è stato più volte ripreso anche dal cinema” (nota p. 134)
[4] https://www.tio.ch/svizzera/attualita/1403679/trent-anni-fa-lo-scandalo-delle-schedature
[5] Su questo tema, vedi anche il docufilm di Alessandra Rossi, Non far rumore. La storia dimenticata dei bambini nascosti (https://www.raiplay.it/video/2019/10/Non-far-rumore-dca9504b-6fbd-427c-a78b-c3c4a4afbb19.html)