Vasilij Grossman / Una vita al fronte

Vasilij Grossmann, Uno scrittore in guerra, tr. Valentina Parisi, Adelphi, pp. 471, euro 23,00 stampa, euro 11,99 epub

Adelphi pubblica finalmente anche in formato digitale questo libro uscito cinque anni fa in cartaceo. Occorre subito dire che attribuire la paternità direttamente a Vasilij Grossman — tra i più famosi corrispondenti sovietici nella Seconda guerra mondiale, in seguito censurato e boicottato quando durante il Disgelo cominciò a scrivere come stavano veramente le cose sotto Stalin — è una mezza forzatura: il libro è infatti una raccolta di corrispondenze giornalistiche, integrate con i diari che Grossman teneva a suo rischio e pericolo. I veri autori sono lo storico britannico Antony Beevor (del quale ricordiamo i libri sulla storia del Novecento, la guerra di Spagna, Stalingrado, la caduta di Berlino) e la giornalista russa Luba Vinogradova, che inquadrano all’interno dei fatti storici, con pagine di ampio respiro e meravigliosa sintesi, i lunghi frammenti estratti dai diari.

Grossman è autore del più straordinario romanzo mai scritto sulla battaglia di Stalingrado, l’imponente Vita e destino che Adelphi ha già pubblicato: una storia accurata e toccante, dal momento che nella città martire, la “città di fuoco” di Pablo Neruda, Grossman c’era stato davvero, e nei giorni più caldi, quando sembrava che la città che prendeva nome da Stalin stesse per cadere in mano ai tedeschi, C’era andato per intervistare i soldati in prima linea, i  generali sepolti nei comandi sotterranei a portata di voce dalla linea di fuoco, i tiratori scelti che combattevano nell’ultima striscia di città larga duecento metri, a ridosso del Volga. Conosceva anche, Grossman, la spaventosa macchina della paranoia stalinista, che prima dell’aggressione nazista aveva macinato le menti migliori dell’esercito, lasciando l’Armata Rossa pressoché impotente per quasi un anno sotto i colpi delle forze corazzate tedesche, italiane e romene. Conosceva infine i rischi di annotare sul suo diario-quaderno le parole degli intervistati nei territori liberati, le meschine rivalità tra i generali, le complicità delle organizzazioni fasciste locali nello sterminio degli oppositori, le reali dimensioni dell’olocausto ebraico nel quadro più ampio della guerra di genocidio contro gli slavi, che avrebbe dovuto liberare territori per i coloni ariani. In Vita e destino c’è tutto questo, ma c’era già in questi suoi appunti di prima mano.

Il libro è diviso in cinque parti, che seguono le alterne fasi della guerra, la prima si intitola “Il trauma dell’invasione (1941)”. Al momento dell’aggressione nazista (ma i sovietici scrivono sempre “fascista” e usano raramente l’aggettivo “nazista”), l’esercito è totalmente impreparato, soprattutto per colpa di Stalin che confida nel patto di non aggressione Molotov-Ribbentrop. Il direttore del giornale invia al fronte Grossman, senza molte aspettative: sovrappeso, poco atletico, il giornalista ebreo non ha nulla del corrispondente di guerra. E invece da questo momento in poi sarà sempre in prima linea per quattro anni, retrocedendo pochi minuti avanti alle armate corazzate naziste che avanzano, e poi nelle trincee di Stalingrado, e ancora a seguito della poderosa macchina da guerra sovietica che, a partire da metà del 1944, distrugge come uno schiacciapietre la Wehrmacht, e poi infine nelle strade di Varsavia liberata, di Berlino occupata. È facile con il senno di poi dare un giudizio di quanto raccontato in queste prime pagine: ma sul momento lo sconforto era grande, sembrava impossibile fermare l’avanzata fascista, mentre le città cadevano una dopo l’altra. Grossman esprime anche preoccupazione per la madre, rimasta in una zona dell’Ucraina occupata. Non la rivedrà mai più: sarà infatti eliminata in una delle esecuzioni di massa di cittadini ebrei, e sepolta in un’immensa fossa comune. L’epica e impari difesa sarà l’argomento del romanzo Il popolo è immortale, pubblicato in Unione Sovietica nel 1943, ancora a guerra in corso.

“L’anno di Stalingrado (1942)” è il titolo della seconda parte del libro. Grossman è già famoso, e popolare soprattutto fra i soldati di linea, grazie ai suoi réportage dal fronte. Nessuno, neppure i generali più famosi, gli nega un’intervista. Attraversa il Volga insieme ai combattenti sotto il fuoco dell’aviazione, si nasconde negli edifici diroccati, parla con i tiratori scelti, intervista il maresciallo Andrej Ivanovič Eremënko e l’uomo che viene inviato a difendere a ogni costo l’ultimo lembo di città, a prezzo della sua vita, il generale Vasilij Ivanovič  Čujkov. È questa la ragione per cui Vita e destino (Adelphi, 2008) risulterà così vivido, così incredibile nella sua capacità di appassionare con le vicende dei molti personaggi stritolati tra i carri corazzati nazisti e la paranoia dell’NKVD, il commissariato di sicurezza interna che non rallenta la repressione neppure nei mesi più terribili del pericolo fascista. All’ultimo momento, quando la VI armata nazista è già condannata alla distruzione, giochi politici interni alla redazione distolgono Grossman da Stalingrado: viene inviato in Caucaso, dove la macchina da guerra della Wehrmacht comincia a invertire il movimento per ritirarsi dalle zone occupate. Verrà poi ampiamente risarcito perché entrerà con le prime truppe a Berlino.

Nelle parti seguenti, intitolate “Riconquistando i territori occupati (1943)” e “Dal Dnepr alla Vistola (1944)”. Grossman segue l’avanzata ormai inarrestabile dell’Armata Rossa verso ovest, gli errori strategici di Stalin, i contrasti con i comandanti dei Fronti. Ritrova i soldati che ha contribuito a far diventare eroi con i propri réportage, come il maggiore Babadžanjan che lui credeva morto:

“Noi, corrispondenti di guerra, udimmo per la prima volta il nome di Babadžanjan in Ucraina, durante le difficili giornate del settembre 1941, nei pressi della città di Gluchov. Il grano non mietuto nei campi si inclinava sotto il proprio peso. I frutti cadevano dagli alberi, i pomodori marcivano negli orti, i cetrioli e i cavoli succosi avvizzivano, le pannocchie non raccolte si seccavano sugli alti steli. Nei boschi le radure erano coperte da un tappeto maculato, i porcini facevano bella mostra di sé sotto gli alberi e nell’erba.

In quel generoso autunno ucraino la vita per il popolo era terribile. Di notte il cielo si accendeva di fuochi lontani; di giorno una cortina grigia di fumo aleggiava su tutto l’orizzonte. In carovane di carri e a piedi, donne con neonati in braccio, anziani, greggi di pecore, mucche e cavalli delle fattorie collettive si dirigevano verso est lungo le strade di campagna, affondando nella polvere.”

Con una certa delusione di Grossman, Babadžanjan sarà nel 1956 il comandante del corpo d’invasione in Ungheria.

“Tra le macerie del mondo nazista (1945)” è il titolo della quinta parte del libro. La scoperta delle condizioni d’occupazione nazista, delle fosse comuni e dei campi di concentramento è un trauma per Grossman; una ferita che si approfondisce ancora di più quando scopre che per esplicita volontà di Stalin le sofferenze degli ebrei sovietici non possono essere considerate che all’interno delle sofferenze di tutti i cittadini dell’Unione Sovietica. Allo stesso modo, non si può porre l’enfasi sulle attività dei collaborazionisti ucraini, lituani e altro, per non negare l’unità dei popoli sovietici contro l’invasore. Le parti dedicate alla scoperta dei campi di sterminio, Treblinka sopra tutti, anticipano i terribili capitoli di Il libro nero (Mondadori, 1999) che Grossman compilò insieme a Il’ja Ėrenburg, su invito del Comitato Ebraico antifascista di Solomon Michoėls e su auspicio di Albert Einstein. Il libro avrebbe dovuto essere una testimonianza imperitura sul genocidio ebraico nei territori occupati, dalla Polonia al Caucaso, dal Baltico al Mar Nero, ma il nuovo antisemitismo stalinista ne impedì la pubblicazione. D’altronde anche tutte le copie di Vita e destino furono distrutte dopo che Grossman le depositò per la pubblicazione: l’unica che si salvò, rinvenuta in una busta a casa di un amico di Grossman, fu microfilmata e contrabbandata all’estero da Andrej Sacharov, e solo grazie a lui oggi possiamo leggere questo incredibile romanzo di amore e guerra, tra i più toccanti del Novecento.

Con “Le menzogne della vittoria. Epilogo”, Grossman descrive l’arrivo a Berlino al seguito delle armate sovietiche che Stalin ha messo in competizione tra loro, maresciallo contro maresciallo, fronte contro fronte, al punto che a un certo momento le artiglierie si sparano addosso una con l’altra. L’epilogo racconta il passaggio di Grossman dalla fortuna di corrispondente di guerra alla disgrazia della condizione di quasi-dissidente. Come Ėrenburg, non sarà mai arrestato, non farà la fine di Solomon Michoėls, morto nel 1948 in un falso incidente stradale, ma negli ultimi anni la sua fama di grande interprete dei sentimenti dei popoli sovietici durante la Grande Guerra Patriottica si troverà notevolmente appannata; e questo anche dopo la morte di Stalin e il disgelo. Grossman muore nel 1964 all’età di 59 anni.

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