Hitsujiko ha solo 4 anni e mezzo quando il mondo tenta di ucciderla; ne ha 10 quando decide che è ora di rispondere colpo su colpo. “Scuotere il mondo dalle fondamenta. Distruggendolo… Ci riuscirò un giorno, lo giuro!”.
Non si tratta di vuoti proclami. Sopravvissuta al suicidio della madre, che una notte si lancia da un piroscafo con lei in braccio, Hitsujiko naufraga su un’isola disabitata insieme a un altro bambino poco più grande di lei, Touta, che diventa il suo inseparabile protettore e fratello maggiore; anche lui è sfuggito alla morte per acqua, ed è stato privato di genitori e identità. Quell’esperienza precoce a contatto con le forze primordiali della natura – i due bambini riusciranno a sopravvivere per qualche anno prima che qualcuno li riporti alla civiltà – lascerà in loro semi invisibili (quasi dei “superpoteri”) ma destinati a schiudersi con violenza, proprio come le piante e le uova degli insetti esotici che stanno invadendo la Tokyo ormai tropicalizzata di questo presente alternativo.
L’arma di Hitsujiko è il movimento assoluto: durante un terremoto sull’isola, la ragazzina ha interiorizzato una sensazione di feroce libertà, che imparerà a riprodurre in una danza capace di destabilizzare profondamente chiunque la veda, liberandone le ossessioni inconsce. Touta invece all’occorrenza sa trasformarsi in una terribile macchina da guerra – ma solo per proteggere le persone a cui tiene; è una creatura puramente istintuale, guidata dal sesso e da un sesto senso quasi animale: non a caso odia la musica (qui metafora di ciò che è astratto, non si può vedere e toccare), e sogna di ridurre Tokyo al silenzio. A loro si aggiunge Leni, giovane immigrato/a di sesso indefinito libero/a dai condizionamenti del gender, che per vendicare il suo amico corvo – sì, dopo aver letto questo libro guarderete con occhi diversi questi pennuti – mette a soqquadro i sotterranei di Tokyo. Anche la sua arma è fatta di immagine, istinto, movimento: è una cinepresa portatile, che assomiglia vistosamente a una pistola.
La satira allegra e feroce di Furukawa dipinge una Tokyo in rapido mutamento (o meglio, mutazione) che sta letteralmente crollando dalle fondamenta (Furukawa immagina che il sottosuolo della città sia abitato da un’antica popolazione che si prepara all’invasione); una metropoli colonizzata dagli immigrati e aggredita da virus mutanti dove i giapponesi non sanno far altro che chiudersi in un nazionalismo esasperato, tra ronde violente e quartieri per soli giapponesi purosangue (dove addirittura per risiedere occorre il certificato di nascita), o rifugiarsi nella superstizione, tra megalotterie e indovini. Forse solo i tre protagonisti possiedono gli anticorpi necessari ad affrontare e in qualche modo a guidare il cambiamento, proprio perché privi dei condizionamenti che hanno sclerotizzato la società; o forse sono forze distruttrici, messaggeri del caos primigenio e della natura selvaggia tornata a riprendersi Tokyo (e il mondo)? Una cosa non esclude l’altra, e il finale resta aperto.
Tokyo soundtrack, uscito in Giappone nel 2003 e solo oggi tradotto dall’ottimo Gianluca Coci, è ricco di echi letterari, giapponesi e non; se le puntuali note del traduttore chiariscono talvolta i primi, il lettore occidentale riconoscerà le seconde deformate o rovesciate come in una casa degli specchi. Si incontrano riferimenti al Signore delle mosche in “salsa Furukawa” – solo che il fatidico maiale qui appare simbolo di forze primigenie non tanto maligne quanto prive di segno; si trova un condominio dal sapore ballardiano – dove però gli scarti della società si sono riorganizzati in modo molto diverso e tutt’altro che misogino: come in Ballard, all’ultimo piano abita l’architetto – solo che si tratta dell’enigmatica e irresistibile prostituta Pierce, forse destinata a diventare l’imperatrice della nuova Tokyo fatta di corpi e rovine. D’altro canto, la sessualità fluida e camaleontica di Leni non può non far pensare a Orlando di Virginia Woolf. Non manca una curiosa rivisitazione del tradizionale legame tra cinema e il mito della caverna di Platone, a beneficio di un’intera popolazione di corvi.
A volte l’immaginario di Furukawa si fa apertamente fumettistico e kitsch, con veri e propri sketch visivi che sembrano tratti da manga o anime popolari e tocchi steampunk; certo è che l’autore giapponese, spesso accostato a Murakami, è certamente un visionario ben più radicale del suo “maestro”: se alcune delle sue trovate sono davvero geniali (come il pullman notturno che smista gli immigrati), all’occorrenza non esita a tradire le esigenze narrative per indulgere a immagini bizzarre e quasi infantili, dando vita a più di qualche lungaggine e scena stucchevole. Proprio come i suoi personaggi, Furukawa presta un’attenzione tutta speciale agli aspetti visivi, soprattutto alle forme di coscienza apparentemente più semplici e istintive, come quella di bambini e animali; sono questi i temi che in seguito svilupperà felicemente nel suo romanzo finora più fortunato, che l’ha fatto scoprire anche da noi, ovvero il sorprendente Belka (uscito in Italia nel 2013), la storia di una dinastia di cani raccontata dal loro punto di vista.
D’altro canto, la profonda critica alla società giapponese, bloccata, ipocondriaca e sessuofobica ricorda molto quella della Natsuo Kirino (non a caso firma uno dei blurb in copertina) di Grotesque e le Quattro casalinghe di Tokyo, dove forme estreme e grottesche di sesso e violenza sembrano le uniche vie di fuga.
Una voce affascinante della letteratura contemporanea, Furukawa ha in Tokyo Soundtrack il suo romanzo seminale. “È da qui che comincia il canto”, scrive l’autore nella prefazione all’edizione italiana – e noi speriamo di tornare a sentirlo al più presto.