Francesco Barilli e Matteo Fenoglio, Piazza della Loggia, Becco Giallo, pp. 351, euro 21,00 stampa
recensisce UMBERTO ROSSI
Se qualcuno avesse ancora dubbi sulle potenzialità del fumetto anche come forma saggistica, dovrebbe leggersi immediatamente questo corposo volume che si apre con un’introduzione di Manlio Milani, presidente dell’Associazione familiari dei caduti di Piazza della Loggia. Milani non si limita a presentare questo graphic reportage (ma potremmo anche parlare di storiografia grafica, o sequenziale, se preferite la definizione di Will Eisner), ma compare “di persona”, disegnato nella ricostruzione di uno dei più feroci attentati degli anni Settanta, trasformato in personaggio in bianco e nero, efficacemente delineato dal nitido tratto di Fenoglio. Come si suol dire ultimamente, e qui assolutamente a proposito, Milani ci mette la faccia, come ad autenticare questa narrazione di una vicenda complessa e intricata (una tipica vicenda italiana, insomma), che parte dai primi anni Cinquanta, col distacco di Ordine Nuovo dal Movimento Sociale Italiano, e arriva fino al 2017, con la condanna definitiva di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte (nome in codice: Tritone) quali responsabili della strage che causò otto morti e oltre cento feriti il 28 maggio 1974.
Come accade anche troppo spesso con le brutte storie nazionali, abbiamo a che fare con l’ingarbugliatissima ricostruzione delle indagini e dei processi, complicata da errori (se tali sono…), depistaggi (ottimi e abbondanti), confessioni e ritrattazioni, testimonianze contraddittorie, complotti e cospirazioni (alcuni dei quali decisamente sgangherati). Aiuta a non perdersi nello svolgersi degli eventi (che spesso prendono pieghe del tutto inattese) la cronologia dei fatti in appendice al volume; ma ci sarebbe voluta anche una galleria dei personaggi (numerosissima), magari in ordine alfabetico e con associati ritratti. Lo dico perché per me, più prossimo ai sessanta che ai cinquanta, gente come Giorgio Almirante, Gianni Nardi, Pino Rauti, Junio Valerio Borghese, Stefano Delle Chiaie, Delfo Zorzi è tutto sommato abbastanza nota, anche se Barilli e Fenoglio me ne hanno fatto scoprire aspetti nuovi (ovviamente non proprio edificanti); ma mi chiedo come farà a orientarsi un lettore giovane, uno di quelli che a scuola sarà arrivato sì e no al 1945, uno per cui questi nomi risultano per niente familiari – figurarsi i comprimari come Emanno Buzzi o Silvio Ferrari…
In ogni caso, il taglio a tratti didattico di Piazza della Loggia è efficace senza nulla togliere alla godibilità (tra virgolette) della lettura, che certo non sarà amena, ma sicuramente è coinvolgente. Ed è alquanto azzeccata l’idea di includere nella narrazione oltre a protagonisti e vittime di allora i testimoni ancora viventi (come Milani), e gli studiosi della strage bresciana e d’altri massacri (come Aldo Giannuli, del quale già recensimmo il saggio Storia di Ordine Nuovo). Certo, è una lettura che causa una certa irritazione, diciamo così, quando si tocca con mano come e quanto di frequente gli organizzatori degli attentati dinamitardi siano stati coperti, aiutati, favoriti ecc. da quello Stato che a parole li vituperava e li condannava. E viene anche un po’ d’amarezza a pensare quanto i cosiddetti “anni di piombo” siano oggetto di una memoria parziale e fuorviante già nel nome, perché a ben vedere furono anche anni di tritolo, quando Iraq e Siria erano qui da noi: non era sempre questione di pallottole mirate, ma anche di carneficine indiscriminate.
Non solo: leggendo queste pagine viene anche da pensare che nel nostro paesaggio mediatico gli anni del terrorismo nostrano si riducano a sequestro Moro, Piazza Fontana e in terza posizione la bomba di Bologna; mettiamoci anche il delitto Calabresi. Il resto, cose delle quali si parla poco e superficialmente, forse perché interviene una qualche contabilità del terrore, per cui sono degni di memoria solo gli attentati con le vittime più illustri e col più elevato numero di morti. O forse le vittime e le stragi che si ricordano rispondono non tanto a una volontà di ricordare, ma alle necessità politico-mediatiche di oggi. Piazza Fontana, per esempio, viene ricordata perché da lì si fa partire la strategia della tensione, come se prima la Repubblica Italiana fosse vissuta in qualche edenica età dell’oro (cosa del tutto smentita dal graphic reportage di Barilli e Fenoglio, che ricostruisce le radici della bomba in tutta una costellazione di fatti che parte da ben prima del fatidico 12 dicembre 1969…).
Ultima considerazione: dopo aver attraversato il groviglio di mezze verità, testimonianze rese e ritrattate (basta leggere la parte relativa alle deposizioni di Tramonte e Romani), documenti contraddittori, false piste, inganni e tranelli (dei quali sono vittime anche gli stessi neofascisti, come Giorgio Spedini e Kim Borromeo, per non parlare del trio di Pian del Rascino), incidenti imprevisti (Silvio Ferrari saltato in aria con la bomba che trasportava con la sua Vespa), perizie menzognere e memorie labili, viene da pensare che qui ci venga mostrato una sorta spaghetti-postmodernism, la versione italiana di Libra di Don DeLillo; una serie di penultime verità, prendendo a prestito un titolo di Philip K. Dick, che possono sempre essere ribaltate o assumere un significato del tutto diverso. Viene in mente JFK di Oliver Stone, ma traslato in questi nostri anni Settanta assai meno provvisti di glamour, eppure accomunati alla storia americana dalla difficoltà di capire chi veramente ha ordito le trame, piazzato le bombe, salvato i colpevoli, eliminato testimoni, contraffatto prove.
Sarà un caso se le paranoiche narrazioni dei postmodernisti americani, in primis Dick e DeLillo, hanno fatto tanta presa da noi? Forse sentivamo aria di casa, nonostante le abissali differenze tra gli Stati Uniti e la nostra Italietta. In entrambi i paesi, la storia va ancora scritta; intanto teniamoci stretto il capitolo riassunto in Piazza della Loggia.