“The Underground railroad” (La ferrovia sotterranea) su Amazon Prime, 10 episodi, da vedere e non importa se non avete letto il libro di Colson Whitehead da cui è tratta. O vi piacerà tanto o vi annoierete a morte, comunque. C’è da dire che questa serie, osannata dalla critica internazionale, è al crocevia di almeno un paio di questioni “critiche” affrontate nel corso degli anni dagli studiosi delle comunicazioni di massa: romanzo e film, film e storia. “The Underground railroad” non è un film, è vero, è una serie tv ma, lasciando da parte per un momento il “mezzo”, parliamo di un racconto per immagini, parliamo di riprese, di ricostruzioni, di Storia raccontata sullo schermo (chiamarlo piccolo fa ridere, visto che la superficie dei televisori tende ad avvicinarsi sempre di più allo schermo cinematografico). È una serie storica tratta da un romanzo, ma è anche una serie “fantastica” frutto di immaginazione. Qualcuno l’ha definita persino ucronica.
“Quale potenzialità ha un film di raccontare il passato in modo significativo e accurato? In questa sede esaminerò dei film di finzione che hanno una trama basata su eventi storici documentabili di resistenza alla schiavitù o che hanno una trama di fantasia, ma in cui l’azione dei personaggi è correlata a eventi storici. Scelgo dei film perché sono un caso più complicato dei documentari. I film sono spesso descritti come prodotti dell’immaginazione, senza un collegamento significativo con il mondo reale o con la storia. Il termine fiction, usato dagli studiosi di cinema, sottolinea il contrasto tra l’immaginazione dei film, sciolta da ogni vincolo, e la “verità” dei documentari. È esattamente questa dicotomia che voglio mettere in discussione, non soltanto perché nei documentari, nei docu-drama e nel cinéma-vérité (così come nella scrittura dei testi storici), è presente comunque una componente di invenzione, un contributo di “finzione”, ma anche perché i film possono proporre riflessioni convincenti su eventi, relazioni e processi storici.”
Parole di Natalie Zemon Davis che introducono il suo interessante libro del 2000: La storia al cinema. La schiavitù sullo schermo da Kubrick a Spielberg (in Italia edito da Vella nel 2007 con una nota di Alessandro Portelli). È stato piuttosto naturale ricordarsi di questo libro e di Beloved (lo straordinario romanzo di Toni Morrison poi diventato il film di Jonathan Demme) vedendo “The Underground railroad”.
Il libro omonimo che Colson Whitehead ha pubblicato nel 2016, tra le letture preferite del presidente Obama: («… è un “promemoria dei modi in cui il dolore della schiavitù si trasmette attraverso le generazioni, non solo in modo palese, ma come cambia le menti e i cuori») racconta la più vera e terribile schiavitù dei neri deportati dall’Africa, immergendola nella più concreta leggenda della storia degli Stati Uniti d’America.
La Ferrovia sotterranea così come la descrive (binari e locomotive) non è mai esistita, era invece una linea di percorsi segreti e tracciati dagli abolizionisti ed ex schiavi o fuggitivi per aiutare gli schiavi a raggiungere il Canada o gli Stati in cui era stata abolita la schiavitù. Rifugi, nascondigli, persone disposte alla cura e all’accoglienza di cui restano pochissime fonti storiche: dal 1840 la “ferrovia sotterranea” entrò nel patrimonio linguistico popolare, la terminologia mutuata dal linguaggio dei ferrovieri: i “conduttori” che prestavano le loro case, le chiese e gli scuolabus, le “stazioni” i “depositi” per le case sicure, il “capostazione” preposto alla vigilanza del sito.
Storia e serie tv, romanzo e serie tv. Difficile chiedere a chi ha letto un romanzo e abbia poi visto il film, difficile chiedere di separare il “giudizio”. Avremo sempre un libro più bello del film, un film più interessante del libro, un libro e un film che si equivalgono, un film che non “coglie”, ecc. ecc. Ci sono pagine di saggi e critica del film e semantica e semiotica che hanno accompagnato lo scorrere di questa questione per decenni.
Una serie probabilmente ha molte più possibilità di “aderire” al romanzo rispetto al tempo contenuto di un film. Ma la questione, parlando di Storia, è quella che definisce Portelli nella nota al libro di Davis: “…la storia può essere impersonale, ma il cinema deve raccontare storie di individui. L’attendibilità storica, allora, diventa la capacità del film di narrare quella che Nathaniel Hawthorne chiamava «la verità del cuore umano»: e cioè la storicità dei sentimenti, delle emozioni, dei rapporti fra le persone. La capacità, insomma, di far vedere come la storia entra nelle biografie, e quindi di come ci riguarda, di come parla di noi”.
Io credo che la trasposizione tv del romanzo di Colson abbia dimostrato queste capacità sia per quanto riguarda la storicità dei sentimenti, sia perché quella lontana storia di razzismo parla ancora oggi, a noi, di noi.
“La ferrovia sotterranea” è una serie difficile, oscura, poetica. Barry Jenkins (regista di Moonlight, 2017 vinse l’Oscar per il miglior film) e una bella squadra di sceneggiatori – tra cui lo stesso Whitehead – hanno creato una struttura travolgente nella sua pacatezza. Un fluire raccolto, nonostante i salti spazio-temporali da un personaggio all’altro (una tecnica che condivide con il romanzo, peraltro), l’insistenza sulle “piccole cose”, il racconto visivo di violenze inaudite: seguire il percorso di Cora e della sua vita – prima e dopo la fuga – diventa sempre più faticoso. Scomodo. L’odio diventa corpo, la paura diventa colore, ombra, liquido. Georgia, Carolina del Sud, Carolina del Nord, Tennessee, Indiana, ogni stato è l’anello della lunga catena razzista, mentre la fuga incessante, snervante, impossibile è la grande sfida al sistema schiavista di Cora come lo fu di Sethe, la protagonista indimenticabile di Beloved, unite non soltanto dalle torture subite e viste, dalla schiavitù e dalle sue ferite, ma anche dal tema della maternità (Cora come figlia e Sethe come madre) e della libertà. Dove inizia la responsabilità e dove la libertà – anche quella di uccidere figli e figlie – di una madre? Mentre Sethe (Oprah Winfrey nel film del 1998) prova, senza riuscirci, a rimuovere i suoi fantasmi, l’assassinio e le tragedie di un tempo vissuto nell’angoscia, gli occhi grandi di Cora (una straordinaria Thuso Mbedu, giovane attrice sudafricana) ci chiedono di ricordare la sua storia e quella di milioni di schiavi morti nel Middle Passage, nonni, sorelle, zie e zii, figli e figlie, famiglie smembrate, distrutte, vendute.
“It was not a story to pass on”, non era una storia da tramandare, ma anche: non era una storia da ignorare, scrive alla fine del suo grande romanzo Toni Morrison. Dimenticare non è possibile e quella Storia troppo orrenda da raccontare, viaggerà invece nel tempo fino a noi, oggi, nelle strade e nelle piazze del Nord America e qui, in Europa, quando guardando il Mediterraneo piangiamo bambini, donne e uomini morti senza nome la cui storia è troppo atroce da tramandare ma impossibile da ignorare.