“Una spirale colorata in una biglia di vetro: è così che vedo la mia vita. I vent’anni trascorsi nella Russia natia (1899-1919) coprono l’arco della tesi. I ventun anni di esilio volontario in Inghilterra, Germania e Francia (1919-1940) costituiscono l’ovvia antitesi. Il periodo passato nel mio Paese d’adozione (1940-1960) forma la sintesi: che è una nuova tesi.”
Così inizia il capitolo 14, l’ultimo scritto in ordine cronologico, apparso nel 1951 su The Partisan Review: infatti Parla, ricordo è una collezione di ricordi apparsi in varie pubblicazioni a partire dal 1943 (anzi il capitolo 5 riprende un testo edito in francese nel 1936), dettaglio che nulla toglie a questo libro magnifico che sarebbe un peccato definire semplicemente “autobiografico”. Nabokov non racconta, evoca la propria vita dai primi ricordi infantili fino al momento della partenza verso l’America, agli inizi della Guerra mondiale. Prima di raggiungere la sua forma definitiva, Parla, ricordo è sottoposto a un lungo processo di affinamento, che termina solo con l’edizione definitiva del 1967: è quest’ultima che Adelphi ripubblica in tascabile, a dieci anni dalla prima edizione.
Ricordi, dunque, non autobiografia: per quanti sforzi l’autore compia in direzione dell’obiettività (obiettività della memoria, se non del fatto-in-sé), la pagina è dominata dal suo stile inconfondibile: lunghe frasi, talvolta complesse, sempre suggestive, ricche di parentetiche che si muovono avanti e indietro nel tempo del ricordo. Non deve stupire se alcuni tra questi capitoli furono pubblicati in origine senza specificare che si trattava di memorie personali e non di racconti: indicativo è il Cinque, apparso con il titolo “Mademoiselle O”, vivido ritratto di una governante francese che ha il ritmo, la struttura e il plot delle migliore fiction di Nabokov.
Ad affascinare il lettore è soprattutto la Voce narrante, che si conquista una credibilità totale con gli stessi stratagemmi letterari che hanno reso indimenticabile Humbert Humbert, l’ambiguo protagonista di Lolita. Sincerità, affidabilità, empatia sono i tre concetti chiave del progetto mnemonico di Vladimir Nabokov, autore che ha il dono della sobrietà quando parla delle proprie disgrazie (l’esilio, naturalmente): non perde occasione per scagliarsi contro i bolscevichi e Lenin in particolare, ma le sue recriminazioni sono giustificate non dalla perdita materiale dell’enorme patrimonio di famiglia, bensì da quel paese perduto che è la sua infanzia, la sua adolescenza russa. Un continente della memoria che Nabokov ricostruirà soprattutto in Ada, o ardore, l’incredibile romanzo pubblicato nel 1969 che ha la forma di un’ucronia, nel quale la parte settentrionale dell’America, colonizzata dai russi, si chiama Estotiland.
In certi passaggi Nabokov si rivolge direttamente alla moglie Véra Slonim, specialmente quando rievoca i primi anni di vita del figlio, e i momenti trascorsi con lui nei giardini di Berlino e Parigi. C’è, naturalmente, la passione per gli scacchi, come pure quella per le farfalle, di molto anteriore, che coglie l’autore fino dalla prima infanzia. La sottile distinzione tra biografia e fiction si infrange, diventa permeabile, perde senso.
Considerando, Parla, ricordo, è curioso che il libro di Vladimir Nabokov più vicino all’autobiografia appunto sia un romanzo, Guarda gli arlecchini! (1974), l’ultimo pubblicato con l’autore in vita: il protagonista, lo scrittore Vadim Vladimirovič N., ricostruisce il proprio passato in maniera non-lineare — ma è facile riconoscere dietro gli episodi, e dietro le opere citate, altrettanti eventi e libri che appartengono a Nabokov, neppure troppo mascherati dietro titoli così simili a quelli reali. Di conseguenza, Parla, ricordo può al contrario permettersi l’indeterminatezza della memoria, con i capitoli che sembrano racconti auto-conclusi, impilati uno sull’altro come dentro un pozzo di san Patrizio dei ricordi — in ordine cronologico, certo, ma con la consapevolezza che Nabokov è il padrone della memoria non meno che delle trame dei suoi romanzi, e l’organizzazione degli episodi non si distanzia dall’intreccio di un romanzo, specialmente se lo stile è lo stesso.
Non deve quindi stupire che il libro sia stato accolto come un capolavoro dalla critica; la rivista Time lo ha incluso nel 2015 tra i 100 migliori titoli non-fiction di tutti i tempi. Era intenzione di Nabokov scrivere il seguito con un secondo volume, Speak on, memory oppure Speak, America, dato che avrebbe abbracciato il periodo del successo artistico nella patria d’adozione, ma pare abbia cambiato idea dopo la pubblicazione di Nabokov, his life in art di Andrew Field. E forse è questa la ragione per cui decide di lasciare il mestiere ai biografi, e sceglie di trasfigurare tutto in quella trasparente metafora della propria vita che è Look at the harlequins.