Entrare in questo romanzo è una sensazione sgradevole, che si accentua man mano che la lettura procede. Ci troviamo dentro una tela dai confini segnati, quelli del modello shakespeariano cui Macbeth di Jo Nesbø, più che ispirarsi, si conforma, facendo parte di una serie di riscritture programmate dei drammi di Shakespeare, affidate dalla Hogarth Press ai “romanzieri più apprezzati e di successo del nostro tempo”, come suggerisce una nota editoriale (sono usciti finora, tra gli altri, una Tempesta di Margaret Atwood, una Bisbetica domata di Anne Tyler, un Racconto d’inverno di Jeanette Winterson, tutti pubblicati in Italia da Rizzoli). Ma al tempo stesso ci troviamo anche all’interno di un genere, quello del noir, che non ammette i vicoli ciechi, in cui lo spazio per i colpi del destino e per l’esito finale dovrebbe essere aperto, dovrebbe permettere al dubbio, alla sorpresa, alla palpitazione di entrare dalle sue porte. Qui, invece, quale dubbio può sussistere, quando i personaggi portano i nomi di Macbeth, Lady, Duncan, Duff, Malcolm, Banquo, Fleance? E quando, senza mai porsi domande sul loro ruolo, come se vivessero in un universo parallelo in cui Shakespeare non è mai esistito (e questa forse è la vera chiave di lettura di un romanzo che altrimenti lascia un forte senso di smarrimento e di vertigine), cominciano a intrecciare le loro vite secondo il copione già scritto e le parti che sono loro assegnate?
L’operazione che ne risulta produce un effetto di straniamento, accentuato dal realismo della narrazione e dallo scenario simbolico e concretissimo insieme in cui il romanzo è ambientato: gli anni Settanta del Novecento, una città dove piove sempre, con una montagna che la divide da un borgo gemello dal clima salubre e in cui immancabilmente splende il sole, e una galleria che collega (o separa) i due luoghi come un cordone ombelicale scavato nell’inconscio. Una città senza nome, in cui i treni hanno smesso di correre e la stazione centrale si è trasformata in un enorme santuario in cui si annidano i tossici come fantasmi: “la seconda città del paese”, che è una Glasgow sinistra e spettrale, con il suo degrado morale e le sue fabbriche abbandonate, e al tempo stesso non lo è, che è un archetipo, un luogo dell’anima che ricorda la Lanark di Alaisdar Gray o la Londra negli specchi deformanti di Michael Moorcock o di China Mièville, e in cui si aggirano personaggi che sono incarnazioni di pure forze psichiche: l’amore, il potere, la fedeltà, l’illusione.
In questo sfondo, più che nella trama già scritta, sono da ricercarsi gli elementi di originalità del romanzo, e nel modo in cui questo alone surreale s’innesta con i riferimenti a una realtà cruda, fatta di spaccio, di gioco d’azzardo, di violenza, di poliziotti onesti e corrotti e di ambiguità morali che spostano spesso i primi nello spazio occupato dai secondi. La contemporaneità si fa strada tra i sacri corridoi del mito: le profezie delle tre streghe diventano il piano malavitoso di un Ecate boss della droga asessuato (più che bisessuato) e prosaico, Seyton, ufficiale fedele a Macbeth, è una sorta di demoniaca creatura bestiale, efferato e capace di annusare i nemici a distanza, epitome di tutti gli sbirri bastardi del mondo, mentre la lotta per il potere di Macbeth e Lady è una lotta di classe di due rappresentanti del popolo, figlio di nessuno cresciuto in orfanotrofio lui, ex prostituta lei, contro l’egemonia delle classi dominanti che, anche quando s’incarnano in figure illuminate come Duncan, capo della polizia onesto e intenzionato a fare il bene dei suoi concittadini, tradiscono sempre, anche loro malgrado, la loro natura oppressiva.
Quello di Macbeth e Lady è il tentativo di una rivoluzione, sporca, cruenta, che si macchia di tradimenti e di orrendi misfatti, e finirà per travolgerli e spazzarli via. Non è spoiler, lo sappiamo fin dall’inizio: la loro sorte, appunto, è segnata dal loro modello di riferimento. Eppure non possiamo fare a meno di seguirne la vicenda, di assistere alla loro discesa all’inferno, sperando che ci sia spazio per una via d’uscita dai vincoli stringenti di una tragedia nota e forse inevitabile. Forse. È questo forse, l’attesa di una svolta, soprattutto, che ci tiene incollati alle pagine nonostante il disagio. In una recensione, ovviamente, non si può rivelare se tale attesa sarà soddisfatta.