Se la repubblica luminosa del titolo non designa affatto un paesaggio utopico, bisognerà pur concedere lo stesso attributo, stavolta in chiave del tutto positiva, alla scrittura di Andrés Barba, autore spagnolo di quarantacinque anni che, per questo romanzo, ha ricevuto nel 2017 il prestigioso Premio Herralde (assegnato in precedenza ad autori del calibro di Javier Marías, Roberto Bolaño e Juan Villoro).
È infatti la scrittura di Barba, in primo luogo, a godere di luce propria, in virtù di un intreccio sempre molto vivido di narrazione cronachistica, citazioni di documenti e riflessioni a carattere gnomico, assai frequenti eppure mai scontate. Il lettore si addentra così nelle vicende avvenute all’inizio degli anni Novanta a San Cristóbal – un’ambientazione subtropicale completamente inventata ma, come si vedrà, senza alcun esotismo – confortato dalla presenza di un narratore che, per quanto tecnicamente inaffidabile, non delude mai le aspettative. Ed è come avventurarsi in un rinnovato cuore di tenebra conradiano, faccia a faccia con il male che, in questo caso, è incarnato, almeno in principio, da trentadue bambini che sono calati sulla città e hanno commesso alcune azioni inspiegabilmente atroci.
I trentadue bambini che hanno reso inquietante la vita di San Cristóbal sono molto più che perversi polimorfi freudiani, arrivando talora a ricordare, più o meno vagamente, i profili e le storie sfuggenti che emergono dalle narrazioni del terrorismo contemporaneo. L’approfondimento dell’indagine è naturalmente diverso, risultando congeniale alla dimensione romanzesca e manifestando una sete di conoscenza che resta invece ignota alle narrazioni massmediatiche appena citate. Del resto, nel dialogo con questo tipo di alterità – conversazione che resta verbalmente muta, con pochissime eccezioni, ma con un incrocio di sguardi sempre destabilizzante – la ricerca è rivolta tanto verso l’esterno, ossia il nemico designato, quanto verso l’interno: ne emerge la consapevolezza di un’alterità che solo in superficie può apparire radicale, facendo parte, in realtà, della stessa identità di chi scrive (o di chi legge).
Come recita la frase di Paul Gauguin in esergo al romanzo, “sono fatto di due cose che non possono essere ridicole: un selvaggio e un fanciullo”, ed è esplorando con estrema serietà queste immagini, nella consapevolezza che di immagini, in fondo, si tratta, che la narrazione evita ogni tipo di esotismo o, per altri versi, di moralismo.
In fondo, riprendendo il titolo della recensione di qualche mese fa di Giorgio Vasta, che a sua volta riprende il testo di Barba, “i bambini siamo noi”, ed è con gli interrogativi perturbanti che porta con sé quest’affermazione che il romanzo ci spinge incessantemente, e proficuamente, a confrontarci.