Non c’è due senza tre: dopo La danza delle mozzarelle (2015) e La santa crociata del porco (2017), Wolf Bukowski firma un nuovo saggio ibrido per la collana “Tempi Moderni” di Edizioni Alegre, nel segno, quindi, della continuità rispetto al proprio posizionamento culturale e politico nel panorama editoriale italiano. Anche l’apparente cambio di tematica – dalle trasformazioni del cibo come luogo simbolico sul quale insistono diverse forze economiche, politiche e culturali ai cambiamenti, sempre variamente articolati, dei territori urbani – non deve trarre in inganno: quel che si trova costantemente all’opera, nelle sue pagine, è una critica dell’ideologia dai tratti fortemente operativi.
Lo si può riscontrare sin dalle prime pagine di questo libro, nelle quali Bukowski traccia la genealogia del “decoro”, e cioè di quel dispositivo securitario che ha origine negli Stati Uniti, con i famosi slogan ideologici della “tolleranza zero” – adeguatamente smontati nel libro – per poi arrivare in Europa, passando per la Gran Bretagna. In Italia, il decoro ha portato, tra gli altri, all’elaborazione dell’ormai ben noto “Daspo urbano”, insieme a una miriade di leggi nazionali e di ordinanze municipali, non di rado aberranti e in contrasto tra loro. Per questa trasformazione ancora in atto, come si diceva, «c’è una sorta di necessario lavoro propedeutico […] ed è quello mirato alla riconoscibilità delle classi sociali. […] Cancellata la classe, le persone saranno da un lato isolate nell’individualismo, e dall’altro confusamente riunite nel nazionalismo, riassumendo così in sé le due polarità del neoliberismo, e cioè quella progressiva e ottimista e quella rabbiosa e sovranista, che non si succedono né si sostituiscono, anzi si completano».
La questione del decoro, dunque, è una questione di classe o meglio, della presunta assenza di classe: puntellandosi sulla frammentazione della classe media e sull’invisibilità dei ceti subalterni, la “battaglia per il decoro”, o anche “contro il degrado”, colpisce soprattutto chi viene rappresentato come “indecoroso”, colpevolizzando la mancanza di risorse economiche o la provenienza da gruppi sociali oggetto di pregiudizio e discriminazione. Saldandosi con l’ideologia del merito, gli indecorosi non sono più soltanto “i poveri che non vogliono lavorare” – secondo l’enunciazione ideologica che è stata propria di tanti luoghi e tempi del capitalismo, dalla seconda rivoluzione industriale sino al razzismo anti-meridionale riattivato dai processi politico-economici di inclusione dell’Italia nell’Unione Europea – ma anche “i poveri che non vogliono farsi aiutare”: altra retorica vuota, se messa a confronto con lo smantellamento del welfare (già ora, più workfare che altro) che è in atto da decenni.
Come segnala Bukowski, tornando a un libro capitale come Cultura di destra di Furio Jesi, “decoro” – così come “sicurezza” o “merito” – è parte delle “idee senza parole”: veicolando l’ideologia delle classi dominanti, tali idee appaiono “né di destra né di sinistra”, ma si rivelano poi funzionali solo alla prima categoria – nella quale, a partire da questo ragionamento, non è difficile includere tanti partiti europei nominalmente “di sinistra”, come dimostra anche il libro, analizzando nel dettaglio Bologna e Firenze come laboratori italiani della trasformazione in atto.
Le idee senza parole, infine, sono estremamente funzionali anche all’atomizzazione della società, ossia alla condizione hobbesiana dell’homo homini lupus: ricordando forse, in sottotraccia, le parole del miliardario americano Warren Buffett – “la guerra di classe esiste e l’abbiamo vinta” – Bukowski sottolinea che quel che si presenta continuamente come “guerra tra poveri”, è, in realtà, una “guerra contro i poveri” e passa attraverso parole d’ordine tanto vuote quanto pericolose.