Umberto Simonetta, Tirar mattina, Baldini&Castoldi, pp. 208, euro 16,00 stampa euro 9,99 ebook
Anni Sessanta affollati, gente di appeal irresistibile, Feltrinelli e Arbasino hanno già ben presente il loro futuro, gli adolescenti si apprestano a una rivincita, tipi magri ma flessuosi varcano la Manica invadendo le italiche contrade e i jukebox provinciali, mentre la Milano dei “trani” ha i suoi fenomeni e i suoi addetti alla cronaca. Non soltanto i torreggianti Buzzati e Montale salgono le scale del Corrierone verso i loro uffici striminziti. Ci sono autentici geni che battono le tavole dei palcoscenici della rivista e gli studi televisivi della RAI. Gaber, Villaggio, perfino De André partono alla conquista di strutture e infrastrutture, di locali notturni e salotti dai divani di cretonne.
In mezzo a costoro, armato di penna ironica e a tratti feroce, scrive, influenza, saggia e assaggia, mette su legami d’ogni genere Umberto Simonetta. “Il resto mancia”, “Io, l’ipotenusa”, “Trani a gogò”, “Barbera e champagne” smuovono tuttora ricordi a qualcuno? Bramieri e Tino Scotti fanno parte degli antesignani di quella milanesità pronta a sorvolare le tangenziali verso luoghi e capoluoghi limitrofi. Le canzonette si avvantaggiano dei testi di questo milanesissimo cresciuto in Svizzera. Uno che si permette di scrivere uno spettacolo teatrale come Mi voleva Strehler (il dio di quei territori) o di staffilare l’aria del tempo con Sta per venire la rivoluzione e non ho niente da mettermi. Un solitario che tutti conosceva e che tutti adoravano, privatamente o pubblicamente.
L’ironia sotto la Madonnina era ben poco apprezzata in quegli anni, caso mai si permettesse di andare contropelo. Grandi personaggi, addirittura “mostri sacri”, si sa, hanno epidermidi sensibili. Ma Simonetta aveva i suoi amici eletti (Parise, Fo), e i passeggi serali erano fonte preziosa per i romanzi scritti addentrandosi nelle epopee notturne dei quartieri. Lo sbarbato, Il giovane nomade e Tirar mattina, autentico capolavoro ora finalmente ristampato. Alla buonora. L’Italia dei dimenticati e delle amnesie colpevoli (oltre a tutto il resto) ha terribilmente bisogno di sottrarre ai sotterranei la sua storia vera.
A vent’anni dalla morte torna il ritratto pungente di una città bellissima e dei suoi personaggi colti nel disordine spericolato di un decennio assunto in cielo dal bianco e nero visivo e televisivo, e dai flussi di coscienza sfrenati di indimenticabili “mosche da bar”. Gli eroi discutibili di Tirar mattina sono i padri e i fratelli maggiori del Fantozzi giunto alla fama nei Settanta. Ma questi inforcano la bici per andare a far i loro comodi sotto un albero della periferia, mentre la frase più convincente che sanno dire alla ragazzetta di turno è “su, fai la brava”. E alla fine le imprestano il pettine sempre presente, allora, nella tasca posteriore dei pantaloni.
L’ultima notte di Aldino, prima del lavoro adulto che l’attende il giorno seguente, è descritta con tutti i canoni dello slang d’epoca, con tutti gli articoli appioppati a qualunque nome (“la” Santa, “il” Pinun, “la” Marisa), il gergo malavitoso miscelato allo strafottente dialetto meneghino. Romanzi come questo, insieme alla Vita agra di Bianciardi, alle opere di Ottiero Ottieri, sdoganano (compreso il torbido, le fissazioni, la celebrata incomunicabilità di Antonioni) il Paese che non è stato soltanto il sogno “a cielo aperto” di Fellini tra Rimini e Roma. Porta Genova, l’EUR, il Grand Hotel, e i loro animali umani, sono tutti parte dell’Italia neurotica che abbiamo attraversato. Mentre l’aristocrazia meridionale conservava per sé altre meraviglie, chi partiva da lì rischiava di non sapere cosa l’attendeva.