Dopo i massacri e le miserie umane raccontati in due libri di notevole successo (uno dei quali, la pièce teatrale portata sullo schermo da Roman Polanski), entrambi pubblicati da Adelphi, eccoci arrivati a un mondo di mezzo, descritto in Babilonia come se le storie di cui siamo circondati fossero tutte goffe e disarmoniche. O allestite da un dio olimpicamente ubriaco. La realtà, occorre dirlo, di solito è ben peggiore. Ma in queste pagine, scritte a Venezia, il girotondo di protagonisti e comprimari produce considerevoli capogiri. Nessuno capisce in che specie di magma viscoso siano immerse le menti, e quale direzione senza applausi si trovino a seguire.
Reza ha spiegato in un’intervista (in cui gli scatti fotografici, tra l’altro, rivelano una scrittrice di autorevole bellezza) come dalla moltitudine di libri fotografici presente nella sua dimora abbia tratto l’immagine di un ometto dalle orecchie a sventola, anonimo e alquanto bruttino. Il ritratto è di Robert Frank e il volume in questione è The Americans (“il libro più triste del mondo”). Ecco dunque il primo personaggio descritto in Babilonia, a cui segue la complice-vittima Elisabeth (entrambi vicini di casa), voce narrante di una donna che si ritrova, forse attratta dall’insolito, coinvolta in avvenimenti impeccabilmente distruttivi.
L’amicizia per questa donna sembra varcare il grigiore limitativo di un matrimonio, la soverchiante noia di feste tra vicini e lontani parenti. In un condominio privo di qualunque interesse, la relazione fra Elisabeth e l’ometto chiamato Jean-Lino, pur lontana da sfregamenti carnali, trasporta entrambi in una palude oscura, dove è facile annusare le nebbie grumose del noir in stile Simenon. Proprio nella seconda parte del romanzo, quando i fatti pretendono ben altro rispetto all’esistenza bassa e un po’ sfiancata dei due anti-eroi. La solitudine è una conseguenza clinica a cui l’uomo e la donna (entrambi sposati ad altri) sono condannati e quasi disanimati al limite della stupidità? Oppure si tratta di una pressoché indispensabile sociologia culturale che mette in luce il mondo, quel mondo? Trattandosi di Reza, la sua maestria va ancora più a fondo, e come accade spesso nel vero teatro e nei teatrini quotidiani il tragico diventa parente prossimo del comico. Ma ciò a cui assistiamo in questo racconto è talmente convincente, anche se molti arricceranno il naso, da far pensare che tutto non sia dovuto a mera coincidenza. E che i due protagonisti si ritrovino affaccendati in un delirio fuori misura. L’idiozia genera mostri, suggerirebbero i fratelli Cohen.
E alla fine la spontaneità, più dell’intenzione estetica, produce danni senza rimedio. Resta il fatto che lo stile di Reza (definita, in altra occasione, come una delle più sensate scrittrici di cui oggi possiamo godere), propiziato in area lagunare, ha concepito un ordine perfetto del disordinato che produciamo tutti, fuori casa e soprattutto dentro.
30 Luglio 2017