Da gennaio Il serpente (Iperborea, 2021 – pp 320 €18, ebook €2,99) , primo romanzo (1945) di Stig Dagerman, è disponibile nella traduzione italiana di Fulvio Ferrari. Romanzo polifonico, ma non corale, rivela già dalla struttura eccentrica il talento tortuoso (eppure limpido) dell’allora ventiduenne Dagerman: scrittore che collocherà se stesso e il mestiere di scrivere al centro del “Bosco delle contraddizioni”, come vuole una sua celebre definizione.
“Contraddizione” come spinta etica a riposizionarsi di continuo: osservando freddamente il consumo esistenziale per non smettere di alimentare la scintilla fragile dei propri valori: scrittura e passione anarchica. Romanzo proteiforme, Il Serpente, sembra già annunciare questa poetica dell’instabilità, della riluttanza ad assumere un punto di vista univoco e didascalico, pur tenendo fermi, anzi fermissimi, i nodi che avvincono politica ed esistenza. E il serpente, che saetta nella ragnatela di storie che compongono il romanzo, funziona da memento: è la paura che può mangiare l’anima e spingere in bocca al mostro dell’irragionevolezza che sconfina nell’assurdo o la compagna fedele che obbliga a riflettere sui condizionamenti che preludono ogni scelta.
Lo spunto nasce dall’esperienza. L’anno prima della pubblicazione, nella neutrale Svezia, si erano svolte esercitazioni militari difensive per fronteggiare un eventuale attacco nemico. Dagerman, che vi aveva partecipato, colloca l’azione del romanzo tra il 1943 e il ’44. I racconti dei compagni, l’insensatezza delle routine militari, l’attesa ‘buzzatiana’, vanno a comporre l’humus in cui l’angoscia trova il proprio albergo elettivo: frantumandosi in episodi apparentemente irrelati, in un milieu in cui l’atmosfera rarefatta e quasi metafisica è spesso trafitta da linguaggi ed eventi brutali. Inspiegabili, se non nella prospettiva di “inquietare” e “abbattere argini’ come dirà verso la fine del romanzo uno dei personaggi (con evidenza l’alter ego dello scrittore). “Considero invece un obbligo, per quanto è in mio potere, inquietare e abbattere argini”. Appunto. Una professione di fede che chiude Il serpente ed inaugura una breve quanto folgorante traiettoria umana e artistica.
In occasione di questa importante uscita, che completa la pubblicazione dei romanzi di Dagerman nel nostro paese, Alessandro Fambrini, germanista, talvolta prestato alla scandinavistica, dialoga con Fulvio Ferrari, traduttore e fine studioso dello scrittore svedese. (Silvia Arzola)
Fulvio Ferrari (Milano 1955), oltre che docente di filologia germanica presso l’Università di Trento, è traduttore da una quantità strabiliante di lingue straniere (dall’intero arco delle lingue nordiche al tedesco e al nederlandese) e in un’attività ormai più che quarantennale si è imbattuto in mostri sacri della letteratura mondiale (ricordiamo solo, tra i tanti, nomi come Knut Hamsun, Cees Noteboom, Klaus Mann) e in un’enorme quantità di autori minori che hanno acquistato una voce importante nel nostro paese anche grazie alla sua mediazione. Ma è soprattutto nella traduzione dallo svedese che Ferrari ha offerto i suoi contributi più sentiti e probabilmente più significativi: da Göran Tunström a Ingmar Bergman, da August Strindberg a Pär Lagerkvist a Fredrik Sjöberg (con il suo L’arte di collezionare mosche, Ferrari è stato insignito nel 2016 del prestigioso premio Gregor von Rezzori). E a Stig Dagerman, al quale Ferrari ha anche dedicato limpide pagine di studio e di critica, e di cui è appena uscito il Italia il primo romanzo, Il serpente, nella sua traduzione. Lo abbiamo incontrato e abbiamo intavolato con lui una conversazione che dall’autore svedese ha preso poi il via, come capita spesso con Ferrari, verso destinazioni di respiro ancora più ampio (e non era facile, considerando la già impressionante ampiezza della figura di Dagerman e ciò che essa veicola).
A Fulvio Ferrari devo anche, tra le molte altre cose, la scoperta di Stig Dagerman. Era il 1991 e io mi ero perso L’isola dei condannati e Autunno tedesco, le prime opere di Dagerman apparse nel nostro paese (la seconda, tra l’altro, tradotta da Massimo Ciaravolo e curata proprio da Ferrari per l’editore Il quadrante). Poi, nel 1991, uscì per Iperborea Il nostro bisogno di consolazione, e fu un colpo di fulmine. Un libretto scarno, poco più di sessanta pagine, dense e indimenticabili. Ma ancora più indimenticabile fu e resta l’introduzione di Ferrari a quelle pagine che aveva tradotto lui stesso, e magistralmente. Avevo conosciuto Ferrari più o meno un anno prima e ci frequentavamo nella sua Milano, che in quel periodo fu anche per un po’ casa mia, e ricordo di aver subito associato, proprio sulla base di quella introduzione, la figura di Dagerman alla sua, come se, scrivendone, Ferrari si proiettasse in lui, si rivedesse nei suoi tormenti e nella sua limpida dimensione morale che non li attenuava, ma dava loro un senso. In chiusura di quel testo, Ferrari scriveva: “L’ultimo giorno della sua vita, Dagerman non tralasciò di consegnare al suo quotidiano, l’Arbetaren, una poesia satirica, Attenti al cane!, in difesa della dignità dei più deboli”. (A.F.)
Alessandro Fambrini: Uno scrittore che sta per suicidarsi, e che tuttavia adempie al suo dovere etico e tiene fermi i suoi principi e i suoi valori fino all’ultimo istante, come se un conto fosse il suo gesto, ultimo atto di una vita divenuta insopportabile, ma atto privato, e un conto la dimensione condivisa, il pensiero di un genere umano come un organismo sociale, da far evolvere verso una condizione di maggiore equità e giustizia. E arrivo finalmente alla prima domanda: che modello può rappresentare Dagerman in assoluto, e per il nostro tempo in particolare?
Fulvio Ferrari: Io credo che il suicidio in giovane età abbia contribuito a creare il “mito” Dagerman, ma che proprio questa mitizzazione abbia avuto, almeno in parte, un effetto negativo sulla comprensione della sua opera. Dagerman viene spesso presentato come l’attualizzazione dell’archetipo del giovane scrittore che muore disperato e puro, quasi autosacrificandosi alla propria purezza. Ma, per quanto ho capito di Dagerman, il suicidio non era l’esito naturale della sua vicenda umana. In un certo senso, la sua fine ricorda quella del personaggio Scriver, nel Serpente, che muore mentre cerca di dimostrare la possibilità di un modo diverso di vivere. La chiave della scrittura di Dagerman è la sua convinzione che per vivere in modo consapevole è necessario guardare in faccia la paura che accompagna l’esistenza, accettarla come una componente di sé, non sperare di cancellare dalla vita l’angoscia, ma non per questo rinunciare all’amore, alla solidarietà, alla sete di giustizia. Questa convivenza di spinte contrastanti comporta un continuo gioco di equilibrio e, come accade a Scriver, in questo gioco si può cadere.
Alessandro Fambrini: La seconda domanda in realtà avrebbe dovuto essere la prima: come sei arrivato a Dagerman? Qual è la tua storia personale con lui?
Fulvio Ferrari: Da studente, all’inizio, Dagerman era per me poco più di un nome. All’epoca leggevo voracemente quasi tutto quello che trovavo di letteratura scandinava (internet non c’era, e la caccia era quindi più complicata) e trovavo soprattutto classici: Ibsen, Strindberg, Karen Blixen e così via. Poi un mio compagno di corso mi ha consigliato di leggere il racconto Uccidere un bambino. Ne sono rimasto fortemente turbato, ho cominciato a cercare notizie su di lui, a recuperare i suoi testi. In quegli anni si stava vivendo la fine di un’epoca. Le grandi speranze della mia generazione si stavano dissolvendo in un clima di sconfitta, di fallimento. In quel giovane anarchico consapevole – una trentina di anni prima – della sua sconfitta politica, ma che non per questo rinunciava ai suoi principi e all’azione mi è sembrato di riconoscere un fratello maggiore, non un modello, ma un interlocutore con cui confrontarsi. E mi sembrava giusto che questo dialogo non si restringesse solo a chi era in grado di leggerlo in originale.
Alessandro Fambrini: Sempre in quella famosa introduzione, parli dell’ “intuizione preziosa del valore intrinseco della bellezza che si sottrae al tempo”, intorno alla quale ruota proprio Il nostro bisogno di consolazione. Che cos’è la bellezza per Dagerman?
Fulvio Ferrari: Mi sembra che Dagerman non dia mai una definizione precisa, didascalica della bellezza. Se però si leggono i suoi saggi, soprattutto quelli in cui riflette sulla propria attività di scrittore, direi che per lui la bellezza nasce quando riesce a dare forma letteraria al suo pensiero e al suo vissuto. Siccome la sua è una visione sempre molto lucida e consapevole delle contraddizioni, sa che raggiungere questo risultato significa sperimentare, trovare il modo di esprimere esperienze conflittuali, non riconducibili a una formulazione semplice. Questo naturalmente rende la prosa “difficile” e lo mette in contrasto con la retorica del realismo socialista, avvicinandolo invece al modernismo e alle avanguardie. Il contrasto tra la ricerca di una forma nuova, non banalizzante, e il desiderio di farsi comprendere è un aspetto di quel modo di concepire la propria attività di scrittore che Dagerman sintetizza nella formula “abitare il bosco delle contraddizioni”.
Alessandro Fambrini: A proposito di bellezza: in che misura credi che al successo (per lo più postumo) di Dagerman abbia contribuito la sua morte precoce e tragica, la sua aura di “bello e dannato”?
Fulvio Ferrari: Come dicevo prima, l’aura di “bello e dannato” ha sicuramente contribuito alla creazione del “mito” Dagerman e ha anche probabilmente stimolato la curiosità dei lettori nei suoi confronti. Rappresenta però una trappola, il mito tende a oscurare la profondità del pensiero di Dagerman, a sostituire la biografia alla bibliografia. La forza principale della sua scrittura sta, a mio parere, nel fatto che ci riguarda da vicino, che parla a noi e di noi. Facendo della sua vita una commovente storia tragica, che in fondo non riguarda noi che non siamo né belli né dannati – e, soprattuto, non ci siamo suicidati – facciamo della sua opera un aspetto, nemmeno essenziale, della sua storia.
Alessandro Fambrini: Pochi anni dopo Il nostro bisogno di consolazione, sempre per Iperborea, uscì (era il 1994) Bambino bruciato, che a me continua a sembrare il capolavoro di Dagerman. Cosa ne pensi di questo romanzo, in cui io vedo la dimostrazione di come lo smascheramento, la messa a nudo di un sé complesso e contorto, in un grande scrittore possa non confliggere con una dimensione etica, di riflessione sulla realtà e, ancora una volta, sui grandi temi della bellezza, della felicità, della ricerca dell’assoluto?
Fulvio Ferrari: Bambino bruciato, naturalmente, è un romanzo bellissimo. Anche in questo caso, tuttavia, credo si debba stare attenti a non cadere nella trappola di prenderlo per una pura e semplice autobiografia. Dagerman fa qui un uso palese dei suoi vissuti, della sua esperienza, ma trasforma questo materiale in una narrazione che non è la sua storia. Prendiamo ad esempio l’episodio dove il giovane protagonista sente cantare l’Internazionale. L’episodio lo ritroviamo in un breve scritto esplicitamente autobiografico, le Memorie di un bambino: la vicenda è identica, ma il significato che le viene attribuito e le emozioni che la accompagnano sono radicalmente diversi.
Alessandro Fambrini: Il titolo di Bambino bruciato ci porta in un ambito che Dagerman ha frequentato molto nella sua narrativa, quello dell’infanzia, anche se il protagonista di questo romanzo è un ventenne: ma immerso in un’adolescenza perenne e anzi addirittura rivendicata, per quanto dolorosa. Ma penso ad alcuni racconti magistrali dei Giochi della notte come quello che dà il titolo alla raccolta. E’ come se Dagerman concentrasse nei bambini tutta la sua disperazione e tutte le sue speranze, che diventano poi disperazione e speranze del mondo. Tu hai curato, sempre per Iperborea, un testo dal titolo paradigmatico, Perché i bambini devono ubbidire? Ci puoi dare in sintesi la risposta a questa domanda, secondo te e secondo Dagerman?
Fulvio Ferrari: In sintesi: quando Dagerman dice che “i bambini devono ubbidire” intende dire che gli adulti devono aiutare i bambini ad assumere consapevolezza dei loro limiti. Il termine “ubbidienza” non ha qui niente, ma proprio niente a che fare con il “si fa così perché lo dico io”, o con la ubbidienza richiesta da una qualsiasi gerarchia. È proprio per la profonda convinzione libertaria di Dagerman che l’educazione al rispetto dei limiti gli appare di importanza vitale. Vorrei qui citare una frase tratta da un altro suo breve scritto, Difficoltà di genitori: “le limitazioni sono necessarie per il semplice fatto che esiste un limite alla libertà, un limite che si fa presto a raggiungere. Se lo oltrepassiamo corriamo il rischio di ritrovarci non in una maggiore libertà, ma in una grande schiavitù”. Credo non ci sia spiegazione più chiara della differenza tra l’ideale anarchico e il corrente abuso del termine “anarchia”.
Alessandro Fambrini: Una domanda un po’ laterale, che ci riporta all’inizio del tuo lavoro su Dagerman e alla mia sensibilità di germanista (talvolta imprestato alla scandinavistica). Tu hai curato Autunno tedesco, al quale hai dedicato anche un breve, denso saggio, L’arte di arrivare troppo tardi il più in fretta possibile. A me sembra che lo sguardo di Dagerman sulla Germania del dopoguerra sia sorprendente, perché non indulge nella retorica della colpa tedesca, non insiste sulla giustizia di punizioni esemplari, ma sull’ingiustizia arrogante dei vincitori nei confronti di chi, come sempre, subisce i contraccolpi della storia: i diseredati, gli ultimi, che sono tutti uguali, tedeschi o non tedeschi, così come sono tutti uguali gli aguzzini e gli sfruttatori. Inattuale, eppure attualissimo?
Fulvio Ferrari: ventiquattrenne, riuscì a vedere quello che scrittori e giornalisti molto più esperti di lui non erano in grado di vedere, perché in certa misura accecati dall’odio e dal desiderio di vendetta. Sentimenti comprensibili, se si tiene conto dei crimini commessi dalla Germania senza che si formasse un vero e proprio fronte interno, un ampio movimento di resistenza e di opposizione al regime paragonabile alla Resistenza italiana. Dagerman però riesce ad andare oltre questi sentimenti e a porsi alcune domande fondamentali. In primo luogo: se i tedeschi hanno, a suo tempo, rinunciato alla democrazia e si sono gettati tra le braccia di uno spietato dittatore è obbligandoli a fare la fame che li si rieducherà ai valori democratici? E, questione etica più generale: è legittimo torturare un intero popolo per i suoi errori e anche per le atrocità che ha commesso o a cui non si è opposto? A questo poi si aggiunge che il principio di ubbidienza cieca, a cui i tedeschi avevano aderito nel “dodicennio nero” non era di per sé messo in discussione nemmeno negli stati democratici, e ovviamente non in Unione sovietica: agli ordini si ubbidisce, secondo i principi proclamati da tutti gli eserciti e da tutti gli stati. E poi c’è la coscienza politica di Dagerman, le sue convinzioni anarchiche che lo spingono a indagare le differenze di classe che si acutizzano anche in una condizione di miseria generalizzata. Autunno tedesco è prezioso proprio perché spinge lo sguardo oltre la facciata, non si ferma alle frasi fatte, non concede niente alle risposte istintive, ma cerca di capire e di non venir mai meno alla solidarietà con chi soffre.
Alessandro Fambrini: Una domanda – inevitabile – al traduttore Fulvio Ferrari. Che lingua è quella di Dagerman? Che è scarna, antiretorica (questo lo dico io): e allora, come ci si lavora nel renderla in italiano?
Fulvio Ferrari: La lingua di Dagerman cambia in realtà moltissimo da testo a testo. È uno sperimentatore. Nel Serpente gioca con registri tra loro diversissimi, nell’Isola dei condannati fa uso di un simbolismo quasi rarefatto, in Bambino bruciato adotta uno stile sostanzialmente realistico. È come se la sua voce continuasse a modularsi in modo diverso per rendersi più efficace nell’esprimere quello che gli sta a cuore. Questo costringe anche il traduttore a sperimentare, a osare. Una traduzione letterale ce la si può scordare e il rischio di allontanarsi troppo dall’originale è sempre in agguato. Io ho cercato sempre di chiedermi come avrei detto io quelle cose nella mia lingua. Soprattutto nella traduzione dei dialoghi mi sembra che sia l’unica strada percorribile.
Alessandro Fambrini: Chiudiamo con l’ultima uscita, con il romanzo che ha dato spunto a tutta questa chiacchierata. E’ appena uscito Il serpente, sempre da Iperborea e a tua cura. Che romanzo è, e perché arriva in Italia per ultimo, pur essendo l’opera di esordio di un Dagerman giovanissimo, appena ventiduenne?
Fulvio Ferrari: Le sorti dei romanzi dipendono spesso anche da fattori casuali. Nel caso del Serpente credo che abbia avuto un ruolo importante il fatto che è, obiettivamente, un romanzo non semplice. Non è semplice da leggere e non è semplice da tradurre. Le voci che si alternano nel libro sono tra loro molto diverse. I dialoghi sono spesso di una straordinaria brutalità, fanno uso di un gergo aggressivo, duro. Poi ci sono invece parti dove le descrizioni si fanno complesse, ricche, ma anche esigenti addentrandosi in un labirinto di immagini, di simboli, di metafore. Il lettore non può distrarsi, altrimenti gli sfuggono legami solo accennati, a volte sottintesi, e si rischia di non cogliere il senso complessivo della narrazione. Ma, credo, per il lettore attento è un libro capace di dare davvero moltissimo.
Alessandro Fambrini: Siamo alla fine di questa chiacchierata. Data che l’ho condotta io, chiuderei lasciandoti la libera parola: su di te, su Dagerman, sulla letteratura svedese. Su quello che vuoi. E grazie, Fulvio. Peccato che di Dagerman ormai non resti niente di inedito. Oppure…?
Fulvio Ferrari: Che non resti niente di inedito non è del tutto vero. I suoi drammi non sono mai stati tradotti in italiano (e mai messi in scena) e anche la gran parte della sua produzione poetica resta ancora da tradurre. Intorno a Dagerman si è costruito un fandom piccolo, ma fedele ed entusiasta. La mia speranza è che, oltre a tradurlo, si cominci anche a studiarlo di più, così come mi piacerebbe che si studiassero di più altri autori scandinavi, di quelli che – come Dagerman – hanno concepito la scrittura, l’arte in generale, non come un semplice esercizio estetico, ma come un mezzo per comunicare, per dire qualcosa di fondamentale e di urgente per tutti noi.