Un sano ritorno all’odio di classe?

Maurizio Lazzarato, Il capitalismo odia tutti. Fascismo o rivoluzione, DeriveApprodi, pp. 141 pagine, euro 15,00 stampa, euro 12,99 epub

Dimenticare Foucault (sì, di nuovo). E assieme a lui Butler, Negri, Latour, Guattari. Per Maurizio Lazzarato la Sinistra del post ‘68 si è pacificata con il potere, ha rimosso la sconfitta storica celebrando le splendide sorti e progressive del Cognitariato. A forza di inseguire il “divenire rivoluzionario” nei gangli della produzione immateriale ha rinunciato a un pensiero davvero strategico (ebbene sì: che fare?), ritrovandosi ad affrontare il capitalismo del Ventunesimo secolo con gli strumenti del Diciannovesimo. Eurocentrica dalle origini (Marx), la sinistra critica si ostina a guardare la realtà esclusivamente attraverso le lenti del biopotere, girando la testa davanti alla violenza – di classe, di razza e di genere – da sempre alle radici dell’ordine neoliberale nel mondo.

Il capitalismo odia tutti è una riflessione che affronta con chiarezza e semplicità di linguaggio i nodi che pesano da qualche decennio sull’immaginazione politica della parte di noi che si professa socialista, rivoluzionaria, etc. Con i tempi che corrono non è poco. Per comprendere le cause che hanno determinato la sconfitta della “rivoluzione mondiale” negli anni Sessanta e Settanta – e la flebile persistenza dei cicli di lotte successivi, da Occupy al Movimento 15M – si parte quindi dal presente.

Dopo il tonfo del “riformismo a credito” tentato in Brasile e in altri Paesi del Sudamerica nell’ultimo ventennio, ora anche le toppe colorate sulle braghe dell’economia neoliberale appaiono per quello che sono, soltanto più lise. La crisi irrisolta del 2008 è sfociata da un lato nelle rivolte di Santiago, di Bagdad, di Beirut o nel movimento dei gilets jaunes francese, dall’altra nell’affermazione globale del fascio-liberismo di Trump, Modi, Bolsonaro. Per l’autore non si tratterebbe di una destra più o meno autoritaria e razzista, ma di una rivoluzione paragonabile a quella guidata da Margaret Thatcher e Ronald Reagan quarant’anni anni fa (previo beta test cileno), con lo startup neoliberale.

Nella logica del capitale l’appropriazione e l’estrazione non sono un residuo premoderno, limitato alla cosiddetta accumulazione originaria, ma formano la seconda gamba sempre pronta a marciare al passo con la produzione. La parentesi coloniale, in quanto tale, non è stata affatto una “parentesi” e ha segnato la nascita dell’economia mondo nel 1492, senza aspettare l’arrivo della macchina a vapore. Dopotutto c’erano gli schiavi. L’unico posto del pianeta che NON ha mai visto una rivoluzione del resto è infatti proprio l’occidente industriale, cioè l’unico da cui Marx se l’aspettava. A separare produzione e distribuzione di merci, capitalismo finanziario e industriale, si perdono solo di vista i flussi del presente e si sbattono le porte della metropoli in faccia ai dannati della terra, come denunciava Frantz Fanon già 70 anni fa.

In generale, non esiste una forma tecnica della “produzione” senza una forma sociale che ne indirizzi e ne informi le risorse. La tecnologia, insomma, sarà anche “buona” o “cattiva”, ma non sarà mai neutra. Ne, se per questo, infallibile: la biopolitica di Silicon Valley che ha pompato la nuova “società della sorveglianza” denunciata da Shoshana Zuboff secondo Lazzarato avrebbe anche mancato clamorosamente il suo obiettivo, cioè controllare i nostri comportamenti grazie a un behaviorismo più o meno orwelliano.

Il capitalismo “odia tutti” perché le nuove tipologie di fascismo soft mettono brutalmente in evidenza i limiti delle definizioni di “potere” elaborate dal pensiero politico-filosofico post ’68, che non ha previsto o considerato la guerra civile come dispositivo strategico e, stante questa mancata premessa, non è oggi nemmeno in grado di immaginare come cambiare le cose.

Conosciamo le risposte al “che fare” offerte da Lenin oltre un secolo fa (il partito rivoluzionario, l’avanguardia operaia, etc.), oggi indigeribili per qualsiasi movimento sociale, femminista, ecologista, etc., e ignoriamo (ovviamente) la possibile risposta odierna. Non sappiamo se davvero esiste una formula che permetta di spezzare l’incantesimo capitalista (realismo magico capitalista?), o se per chissà quanto tempo ancora ci si muoverà a tentoni, da bravi apprendisti stregoni. Quello che veramente ci chiediamo è però se – in un contesto radicalmente mutato ed esteso a miliardi di umani, senza le certezze che derivano dai tradizionali soggetti sociali e dalla narrazione marxiana dei rapporti economici – “che fare” sia ancora la domanda giusta da porsi. O se alla domanda di cambiamento non corrisponda oggi anche il cambiamento della domanda. La verità è che la verità cambia, diceva Nietzsche. E noi con essa.