Un salone del libro per ogni lettore

Il Salone del Libro di Torino è in realtà tanti Saloni. Uno per ogni lettore, si potrebbe dire. Come del resto ogni libro, che pur essendo uguale è poi diverso e unico nella testa e nell’immaginazione di ogni lettore. Il Salone del Libro ha 35 anni e una sua aura mitica, tanto che quelli come me che abitano vicino e ci vanno tutti gli anni vengono guardati con un po’ di invidia e persino ammirazione.

LE CERTEZZE
Ci ono alcune certezze, al Salone del Libro. La prima è che non sai mai che tempo farà. Prepari la valigia pensando a tutte le possibilità, ma poi ti manca sempre quello che davvero ti servirebbe. Per dire, l’anno scorso avresti dato qualsiasi cosa per avere i sandali invece delle scarpe chiuse. Quest’anno invece nessuno aveva abbastanza strati per coprirsi, abbastanza ombrelli o cappelli per la pioggia.
Sarà perché è maggio, ma ogni Salone sorprende anche i più sgamati con un tempo atmosferico insospettabile.
La seconda certezza è che farai fatica a farti strada tra la folla e che dopo un po’ anche se è fatta di tuoi simili (non solo umani, anche lettori) la odierai.
La terza è che i bisogni primari saranno difficili da soddisfare. Non potrai evitare la coda per il bagno. E anche quella per qualcosa di commestibile, a un certo punto deciderai di affrontarla.
Ma la quarta certezza è che nonostante tutto questo sarai molto contento di esserci. E ci vorrai tornare.

IL TEMPO
Il tempo del Salone è diverso da quello là fuori. Si cammina veloce per andare da un incontro all’altro, e poi si fa i flâneur tra i banchi dei libri. I tre quarti d’ora della presentazione, quando è bella, sfuggono in un soffio, si è così assorbiti che la fine è come un risveglio, brusco. Gli stessi tre quarti d’ora, quando si incappa in un incontro noioso, sono infiniti mentre si cerca un modo per uscire senza dare nell’occhio. Verso sera, carichi di libri che non si volevano comprare (ma è una balla che ci si racconta ogni anno), si esce ed è come se fosse passato un anno, come se il mondo là fuori fosse nuovo e misterioso.

LE CITTA’ INVISIBILI LETTE DA LELLA COSTA
Ora voi vorrete il racconto di qualche incontro, mi pare giusto.
Forse vi deluderò, ma non vi parlerò né di Murgia, né di Peter Cameron, né di Emmanuel Carrère. Non credo di avere nulla da aggiungere a tutto quello che ne è stato detto e scritto.
Mentre ci sono alcuni eventi “minori” che magari non sapevate neanche ci fossero, e che sono quei Saloni nel Salone che stupiscono e riconciliano con il mondo, meraviglioso ma un po’ stantio, dei libri e dell’editoria.
Le città invisibili lette da Lella Costa non è propriamente un evento “minore”. Non fosse che perché questo 2023 è l’anno del centenario della nascita di Italo Calvino, e perché Lella Costa ha fatto molto ridere noi signore soprattutto, e non ha mai mancato di parlare di libri e di cultura con garbo e dignità.
Insomma l’evento aveva tutti i crismi ma era confinato nella Sala Cinquecento, sepolta sotto due piani di sale e salette riservate al business, non nei padiglioni ma nel grande edificio del Lingotto. Non mancava la coda per entrare, questo no. Ma poi la sala, che era enorme, non era stipatissima. D’altro canto 1400 eventi in 5 giorni necessariamente si sovrappongono e bisogna scegliere.
Molti anni fa avevo ascoltato Le città invisibili lette da Massimo Popolizio, al Festival di Spoleto. All’aperto, di notte, con una sola luce che lo illuminava mentre leggeva.
Le città invisibili diventavano miraggi che si profilavano all’orizzonte, che si accendevano per il tempo in cui venivano raccontate e poi si spegnevano.
Erano soprattutto luoghi, costruzioni, architetture.
Le città invisibili che ora ascoltavo da Lella Costa erano un’altra cosa.
In una sala ben illuminata, con un vestito verdissimo tutto plissettato, forse di Issey Miyake o forse di un suo emulo, e un paio di stivaletti traforati dalle suole rialzate, con una allure vagamente giapponese, Lella Costa leggeva con la sua voce morbida, appena rauca. Con un tono mai troppo alto.
Così che le sue Città invisibili si trasformavano nei loro abitanti, che quelle città modellavano o da quelle città venivano modellati. E ogni città era anche uno dei mille modi del nostro stare sulla terra, occupare lo spazio, spostarci, transitare, abbellire e danneggiare. Ogni città era un andirivieni di persone, con le loro motivazioni e le loro infelicità.
La conclusione, che idealmente è anche la conclusione del Salone, per me, era la frase fin troppo citata, di Calvino:
“Cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio”.
Che però letta nel suo contesto, ha preso un’altra forza e un altro impeto.

L’ALBUM DI FAMIGLIA DI ERNESTO FERRERO
In un’altra piccola sala, quella blu, in un angolo del padiglione 2, poche ore dopo Ernesto Ferrero, che ha diretto il Salone per moltissimi anni, leggeva brani del suo Album di famiglia. Maestri del Novecento ritratti dal vivo.
Ernesto Ferrero ha lavorato in Einaudi negli anni d’oro, quelli di Mario Rigoni Stern, Gianni Rodani, Eugenio Montale, Fruttero & Lucentini, Italo Calvino. Li ha conosciuti tutti e li ha conosciuti nelle loro vesti meno note, con i tic e i vizi, con le grandezze e le meschinità, con il talento e l’umanità. E nel libro compone tanti piccoli ritratti famigliari, come se raccontasse di amici ad altri amici.
A noi fa un certo effetto, perché quei nomi hanno passato il vaglio di una generazione, quasi di un secolo, e sono la scrematura, la prima scelta di tutto un mondo di libri e scrittori. Così viene da pensare chi e che cosa resterà, di questo nostro tempo così affollato. Che forse anche quei tempi là, di cui appunto a noi è arrivata solo una selezione, sembravano affollati, e in proporzione lo erano.
Ernesto Ferrero legge con la sua voce morbida, pacata, calda. Per lui son cose note, le racconta con semplicità e affetto.
Alternate alle letture, le canzoni un po’ melanconiche, ballate d’altri tempi, di Carlo Pestelli.
Tre quarti d’ora di pace, di riposo, di bellezza.
Ci volevano proprio.

FAME D’ARIA DI DANIELE MENCARELLI
Di questo magnifico poeta e scrittore avete sicuramente letto qui su “PulpMagazine”. Il suo ultimo romanzo è Fame d’aria, è uscito in gennaio ed è già stato presentato in molti luoghi e occasioni.
Ma Daniele Mencarelli è, se non l’unico, uno dei pochi autori che non fanno mai una presentazione uguale all’altra. Pur raccontando il libro, pur sviscerandone i temi, esplorandone la genesi, analizzando la scrittura, ogni presentazione del libro è un evento a sé, e le si potrebbero ascoltare tutte senza annoiarsi, senza accorgersi che si tratta sempre dello stesso romanzo.
Certo Mencarelli è autentico e compassionevole come pochi altri.
È intenso e profondo.
È generoso e non ha paura di parlare di malattia, di povertà, di classi sociali, di stato assente, di timori e di sconfitte. Ma sa anche sempre trovare la salvezza.
Che prende la forma di uno o più personaggi che hanno conservato, coltivato e nutrito la propria umanità, ovvero la capacità di “patire con”, di avvicinarsi senza pretese, di dare quello che hanno senza pensare di cambiare e risolvere la vita degli altri.
Che si trova negli sconosciuti, negli occhi di chi ci vede davvero, e nel vederci riconosce anche la sua sofferenza.
Sono sempre molto intense, le presentazioni di Daniele Mencarelli. Io spesso mi commuovo. E gli sono sempre grata di sapermi offrire (e naturalmente non solo a me) più che degli spunti di riflessione dei momenti di compassione, di vicinanza, di forte sentire.

Leggi anche:  Daniele Mencarelli / Intervista

 

LA FINALISSIMA COMIX GAMES

Un Salone poco conosciuto è quello del lunedì, delle scuole, degli studenti e dei professori. Il lunedì la maggior parte dei visitatori è tornata al proprio lavoro e alle proprie occupazioni, con qualche libro in più, qualche idea e qualche progetto in più.
Il lunedì le scolaresche hanno il Lingotto tutto per sé. Non che non se ne vedano, di classi di diverse età che cercano di restare in fila e compatti negli stretti corridoi dei padiglioni del Salone. Ma il lunedì hanno campo libero.
Da qualche anno il lunedì è anche il giorno della Finalissima dei Comix Games.
Ma cosa sono i Comix Games, starete pensando.
Sono dei campionati ludo-linguistici organizzati da Comix con Repubblica@Scuola e il Salone del libro di Torino. Siamo all’undicesima edizione: ogni anno la sfida è diversa, ma porta sempre venti squadre a partecipare alla finale a Torino.
Quest’anno si trattava di scrivere una canzone, con tanto di rime e ritornello, che raccontasse un libro o ne descrivesse i personaggi principali. Si poteva prendere spunto da una canzone già esistente o inventarsene una di sana pianta. Creatività e divertimento non devono mancare.
La finale cominciava alle tre, alla Sala Azzurra. Già qualche ora prima ronzavano intorno alla struttura di ferro gruppi di ragazzi con le magliette chi rossa, chi verde, chi azzurra, bordeaux, blu. Quando sono entrati tutti, con gli amici e i professori, hanno riempito la sala.
La sfida consisteva in un tautogramma e un acrostico da realizzare al momento, e nella rappresentazione live del libro che raccontavano attraverso una canzone.
Una delle prime cose che saltava all’occhio era che quelli che c’erano in sala erano ragazzi normali. Più o meno studiosi, più o meno dotati, ma che hanno trovato un insegnante che li ha guidati e incoraggiati, facendogli toccare con mano che le con le parole, come con tutto, si può giocare. E sebbene il Comix Games sia una gara, con tanto di vincitori e di premi, lo spirito non è la ricerca dell’eccellenza, della prestazione eccezionale, del primato sugli altri.
Vengono premiati la creatività, la collaborazione, la prontezza, la sfrontatezza anche. Oltre che l’entusiasmo e la voglia di giocare (e mettersi in gioco). E meno male, perché l’ossessione della nostra società per la competizione, per il risultato, per la vittoria, hanno davvero contagiato la scuola.
Io che ho sempre amato le parole, ne ho sempre subito il fascino e le ho scelte come compagne di vita, ho trovato davvero carini e divertenti i tautogrammi e gli acrostici composti dalle varie squadre. Ma soprattutto mi sono divertita con i live: le coreografie, i travestimenti, le messe in scena e le canzoni erano davvero divertenti, e di grande qualità. E la scuola che ha vinto, il Liceo Scientifico Enriques di Livorno, aveva riscritto i Dieci piccoli indiani sul ritmo e le rime di Mamma mia degli Abba. Due ragazzi si erano vestiti tutti di bianco, e cominciavano in piedi davanti al microfono dandosi le spalle… non c’è come divertirsi per far divertire gli altri.
Ecco la cultura, la lettura, i libri sono molto di più e molto di meno di quello che si pensa.
Sono esattamente il valore che gli diamo noi.