Jens Peter Jacobsen, Marie Grubbe, tr. Bruno Berni, Carbonio, pp. 234, euro 16,00 stampa
Jens Peter Jacobsen corre come una febbre nell’Europa di fine Ottocento. Dopo la sua morte, avvenuta nell 1885 (lo scrittore danese aveva all’epoca trentasette anni), le sue opere vengono tradotte, pubblicate, lette con commozione e passione, soprattutto in Germania. Il romanzo Niels Lyhne (1880) diventa una bibbia per i giovani di allora (per Rainer Maria Rilke letteralmente: “Tra tutti i miei libri pochi mi sono indispensabili, e due sono sempre tra le mie cose, ovunque mi trovi. Anche adesso si trovano qui con me: la Bibbia e i libri del grande poeta danese Jens Peter Jacobsen”, scrive l’autore praghese nel 1905 a Franz Xaver Kappus, il “Giovane Poeta” che gli chiede consigli di lettura), Thomas Mann lo prende a modello per il suo Tonio Kröger, Stefan Zweig lo definisce “il Werther della nostra generazione”. All’autore, scomparso prematuramente per tubercolosi, si guarda con devozione commossa e lo si accosta ai grandi fenomeni della cultura dell’epoca, a Nietzsche, innanzitutto (Jacobsen, il secondo Nietzsche, si intitola significativamente un saggio di Lorenz Knapp del 1905), del quale sembra condividere le sorti: quasi sconosciuto in vita, presto trasfigurato in mito dopo la morte.
Oggi non proprio negletto, ma impallidito nel trascorrere del tempo, anche in Italia Jacobsen ha conosciuto una certa fortuna: Niels Lyhne, soprattutto, ma anche i racconti (dal memorabile “La peste di Bergamo”, rilettura in chiave apocalittica di una storia in cui Cristo si è sottratto al suo destino di sacrificio e “nessun Dio è morto per noi sulla croce”, a “La signora Fønss a Mogens”, il cui inizio è un esempio insuperato di tecnica naturalistica applicata alla prosa narrativa), le poesie, il primo, ambizioso romanzo Fru Marie Grubbe, grande affresco storico, cesellato con estrema raffinatezza di scrittura e proprio in virtù del suo linguaggio proiettato verso la sensibilità fin de siècle, pur con tutta la sua carica di manifesto naturalista, attento ai particolari e preciso nella ricostruzione dei personaggi, degli scenari, degli ambienti.
Marie Grubbe, tuttavia, da sempre in Danimarca al centro dell’interesse della critica, ha goduto all’estero di minore considerazione: troppo danese, troppo all’ombra di Niels Lyhne. Eppure, a ben vedere, sono molteplici i fili che legano le due prove narrative più ambiziose di Jacobsen, e a una lettura comparata dei testi trova giustificazione l’intuizione, puntualmente richiamata da Bruno Berni nella sua introduzione, di Guido Piovene che nel 1930 su Solaria sosteneva a proposito di questo romanzo, appena uscito in prima versione italiana nella traduzione di Giuseppe Gabetti, come “forse il solo Niels Lyhne non sarebbe bastato a suggerirci il vero mondo di Jacobsen”.
Perché sono molte le differenze con Niels Lyhne, ma il mondo rappresentato è uno solo, scandito lungo il filo della vita del protagonista dalla nascita (o dalla giovinezza, nel caso di Marie Grubbe, quattordicenne all’inizio del romanzo) fino alla morte: ed ecco allora che proprio nel finale di questo romanzo si apre la prospettiva sul grande tema religioso che sarà al centro dell’opera successiva (sappiamo che Niels Lyhne avrebbe dovuto in realtà intitolarsi Atheisten, “L’ateo”). Le parole di una Marie Grubbe ormai al tramonto, prima che l’incoscienza scenda su di lei come una cappa pietosa, persino salvifica (anche in questo simile a Niels, che di fronte ai duri colpi della vita troverà una specie di via verso il nirvana osservando le spighe di frumento ondeggiare nei campi e trasformandosi idealmente in pianta), sono una dichiarazione d’intenti, una presa di posizione ideologica:
“Non credete dunque in Dio, comare?” continuò il Magister “e nella vita eterna?”
“Che Dio sia lodato e ringraziato, certo che ci credo, credo in Nostro Signore”.
“Ma la pena eterna o l’eterna ricompensa, comare?”
“Credo che ogni essere umano viva la sua vita e muoia la sua morte, questo credo”
Marie Grubbe va a spegnersi poco dopo questo dialogo che – preciso riflesso di una temperie che attraversa tutta la fine dell’Ottocento – sposta dal divino all’umano il fuoco della riflessione sul senso del nostro essere nel mondo. Il romanzo che la vede come protagonista torna adesso a disposizione del pubblico italiano in una nuova traduzione, a opera di Bruno Berni, che gli rende finalmente piena giustizia (come già era avvenuto alcuni anni fa con il Niels Lyhne delle edizioni Iperborea, a cura di Maria Svendsen Bianchi) e ne restituisce le sfumature elaborate, i toni talvolta bruschi e anche volgari, talvolta barocchi, sempre sontuosi, di una lingua che Jacobsen cercò di modellare su quel diciottesimo secolo in cui il romanzo è ambientato. Un’operazione che fa onore alla casa editrice che l’ha intrapresa e che speriamo possa avere il successo che merita.