Un poema, e per giunta epico
19 FEBBRAIO 2018
Maria Pia Quintavalla, Vitae, La vita felice Edizioni, pp. 128, € 13,00 stampa
recensisce ELIO GRASSO
La vita della poesia, se così si può dire, alligna dentro le storie di quelle persone che passeggiano, e contano i passi degli altri. Gli altri sono sempre coloro che passano accanto e passano via. Per lo più stranieri anche in patria. O sconosciuti a cui la poesia sta stretta e non è causa di vita. Virtù per quest’ultimi, tutto il contrario per chi passeggia avendo a cuore una forma scritta e, prima di tutto, una forma da abbracciare, possibilmente corpulenta come un poema e ricca di suo.
È così che nascono certi libri, quasi cortigiani, protetti dal particolare modo di guardare che hanno i poeti, soprattutto milanesi, e romani. Tutti gli altri preferiscono scrutare il mare, i mari, Tirreno (Ligure) e Adriatico. Un mare davanti e un mare a destra (per chi risale la costa dalla Puglia a Venezia). Siciliani e sardi hanno un’altra storia. Sono circondati, e guardano troppo spesso vulcani e terre arse. Amano i traghetti, e sono pressappoco felici quando il mare grosso impedisce i collegamenti. Ma, appunto, si tratta di altre storie.
Maria Pia Quintavalla, parmense ma più di tutto milanese, è assetata di vita, se ne circonda, e la trascrive come fosse un poema, e per giunta epico. Lo fa in questo libro con frammenti rimasti fuori da quell’opera multiforme (e sapientemente materna) che è China, pubblicata qualche anno fa, e che tentava un manuale di sopravvivenza a uso di una figlia geograficamente collocata dentro il “romanzo della madre”. Oltre ai capitoli di China fanno la loro comparsa gite, viaggi, che ripercorrono tutto l’idealismo delle traiettorie fra centro e periferia. Di un mondo che si vorrebbe fin troppo spesso iper-affettivo e dispensatore di capanne riscaldate.
Ma in molti capitoli di Vitae l’esistenza di scrittori, intellettuali, poeti, filosofi, emerge come un maelstrom proustiano che rifiuta d’essere governato. È materia che affascina, arroccata come è nei propri documenti, nelle congetture, nelle ben differenziate stanze di una casa museo. La testimonianza “dal vivo” si amplia nelle spire di un diario privo di palliativi ma che mostra livelli umanamente urticanti, soprattutto nella parte dei Ritratti. Qui si narra di poeti rasi dal tempo, e prima che il tempo passasse lieve su di loro. Giovanna Sicari, una delle poetesse più stupefacenti avute in Italia dopo (ma per alcuni tratti contemporaneamente) l’epoca presenziata da Amelia Rosselli. Donna indomita, ma domata infine dalla malattia, non prima che consegnasse alle patrie lettere alcuni libri gravidi di destino e destinati a durare, anche più del ricordo di alcuni suoi contemporanei.
Quintavalla trascrive alcuni eventi personali convinta che possano assumersi il ruolo di storia collettiva. Può darsi che certe esperienze condizionino la poetica stessa, anche se impregnate d’ingiustizia, ma la realtà ha spesso intenzioni che varcano qualunque modo si possieda o si cerchi per reggere la vita. La biografia filtrata dagli eccessi d’amicizia non conta più delle opere consegnate, ma di certo libera un faccia a faccia che ingrandisce percezione, esperienza e creazione poetica.
Subito dopo ci sono altri nomi, è vero: Andrea Zanzotto, Nadia Campana, Antonia Pozzi, Patrizia Valduga, Antonio Porta, con scarti improvvisi su queste strade impervie, difficili. E se, a tratti, fossimo invasi da una sorta di confusione, o meglio di capogiro, basti ricordare che i poeti combattono a lungo un esilio, il proprio, e nel migliore dei casi riescono ad affondare le mani negli accadimenti di decenni ma che si presentano lì davanti tutti insieme, sullo stesso piano rotatorio di un mulino ad acqua. Rumoroso, di basso rendimento, ma capace di resistere per secoli.