La casa editrice rilancia questo magnifico incubo, già pubblicato nel 2003, affidando a Francesco Bruno l’invenzione della lingua. Perché non si può parlare di semplice traduzione. La voce narrante è una creatura selvaggia che si esprime in modo soave, squinternato e bellissimo.
Grazie alla scrittura portentosa dell’incunabolo scardinerà il portone dell’inferno in cui si trova. Molti i misteri, e vengono alla luce lentamente, costringendo il lettore a camminare al buio, ricalcolare le posizioni, rivelando architetture incomprensibili e maestose.
Il meno possibile che si può dire, ed è comunque troppo: un padre pazzo e violento tiene segregati i due figli all’interno di una costruzione enorme e disarticolata, che affonda nello sfacelo. Tra loro e il resto del mondo c’è un grande bosco. Come oltrepassarlo, dal momento che il padre è morto?
“Mio fratello e io abbiamo dovuto prendere l’universo in mano una mattina poco prima dell’alba perché papà era spirato all’improvviso. La sua spoglia contratta in un dolore di cui restava soltanto la scorza, i suoi decreti finiti di colpo in polvere, tutto ciò giaceva nella stanza al piano di sopra da cui papà, ancora soltanto il giorno prima, ci comandava in tutto e per tutto. Avevamo bisogno di ordini per non cadere a pezzi, mio fratello e io: erano la nostra malta. Senza papà non sapevamo far niente. Da soli, riuscivamo a malapena a esitare, esistere, aver paura, soffrire.”
Assente la madre e una lingua madre, la creatura narrante legge i libri della biblioteca, che ramificano nella sua mente in modo impervio, al timbro di Saint Simon e Spinoza. Il maschile domina e devasta. Filosofia, orrore, abissi lessicali tanto poetici quanto scandalosi creano un incantesimo che ci cattura. Storia e lettore vivono reclusi, senza capirsi troppo ma tenendosi stretti. “Mi fermai per spezzare dei ramoscelli che mi appuntai nei lunghi capelli e attorsi per farne una corona di spine, poi camminai in modo tale da sembrare danzante seppure nella mia tristezza. Le mie mani sono piene di grazia, non so se ho scordato di dirlo, simili alle onde d’ovembre sullo stagno, perché conosco anche il nome dei mesi, tutti i miei amici sono parole”
Nucleo dell’occulto è il Giusto Castigo, che viene continuamente nominato, come fosse un idolo, o la cerimonia di un rito familiare, e che solo alla fine si mostrerà nel suo insopportabile orrore. Il fuoco purificatore tornerà a bruciare. “Nei dizionari che andremo a cercare in ciò che domani resterà della biblioteca incendiata, dove alcuni, oso credere, saranno stati risparmiati, sono duri a morire i dizionari, come se niente fosse hanno la calma cocciutaggine del legno da cui sono nati, gli alberi non potevano farci regalo più bello. E leggeremo, leggeremo! Fino a cadere a terra ubriache, perché in fondo cosa conta se mentono, quelle storie, dal momento che grondano limpidezza, e stellano la cucuzza dei bambini ruzzolati dalla luna stesi a fianco a fianco, a due a due, lei e io?”.
Il canadese Simon Lavoie (canadese è anche lo scrittore) nel 2017 ne ha fatto un film, La petite fille qui aimait trop les allumettes appunto.