Perché rileggere il libro di Ruggero Zangrandi Il lungo viaggio attraverso il fascismo (Mursia, Milano, 1998), può essere utile anche oggi? Perché affronta alcune questioni centrali nella riflessione politica attuale. Il volume parla del ruolo che, secondo l’autore, avrebbero dovuto avere gli intellettuali durante il fascismo, per orientare in senso democratico la generazione dei giovani, quelli nati tra gli anni Dieci e Venti del Novecento, che non avendo esempi, punti di riferimento, sostegni di alcun genere, furono largamente fascisti e non trovarono maestri che li aiutassero a comprendere.
Questa tesi di fondo accompagna la riflessione di Ruggero Zangrandi, classe 1915, che ci narra la sua vita di giovane studente, trasferitosi a Roma da Milano a frequentare il Liceo classico Tasso, dove dal 1929 diventa compagno di banco e amico di Vittorio Mussolini.
Zangrandi, che ama la scrittura e il giornalismo, racconta nella prima parte del libro come divenne collaboratore del giornale Il Popolo d’Italia con una serie di corsivi polemici sugli aspetti più controversi e grotteschi della cultura dominante, pensando che nel fascismo ci fosse un tarlo, un’incongruenza che ne minasse le radici innovative, un difetto che con la critica serrata si poteva eliminare per riportarlo alle origini rivoluzionarie.
Il fascismo gli sembrava una sorta di melting pot dove convivevano idee e posizioni diverse. Con una critica serrata di certe scelte del regime, esso si sarebbe liberato dagli aspetti più reazionari. Così Zangrandi criticò il Futurismo, giudicato un movimento letterario che, dietro le apparenze, era sostanzialmente conservatore e promosse il movimento del Novismo, che doveva sprovincializzare la retorica fascista.
Nel volume Zangrandi racconta le sue lunghe e tormentate discussioni con un gruppo di amici, combattuti, come lui stesso afferma, “tra un moto spontaneo, generoso, perfino entusiasta di attrazione verso il fascismo e il sospetto (o solo la sensazione) che ci fosse qualcosa che non andava”. Permane in molti di loro l’idea che il contributo critico che i giovani potevano dare avrebbe indirizzato in senso progressivo la politica di Mussolini.
Sulla conquista dell’impero in Africa orientale i giovani inquieti condividono la lettura che ne fa il regime come di una grande azione di liberazione dei popoli neri asserviti da spietati rais locali. Va ricordato en passant che non tutti i giovani italiani furono persuasi dalla propaganda fascista. Ilio Barontini, Domenico Rolla e Anton Ukmar, che da triestino sloveno aveva conosciuto la campagna di feroce repressione che il fascismo aveva condotto contro gli slavi al confine orientale, andarono in Etiopia per dare man forte ai ribelli, combattendo al loro fianco con risultati così apprezzabili che Barontini fu nominato vice imperatore da Hailé Selassié.
Dopo la metà degli anni Trenta Zangrandi crea un “partito socialista rivoluzionario” insieme a Carlo Cassola, Paolo Alatri, Ugo Mursia, Bruno Zevi ed altri, e si spende per diffondere in tutta Italia la sua organizzazione. Ma essa oscilla ancora – par di capire – tra un rifiuto del fascismo e una sua accettazione critica: ancora si è confusi, dubbiosi, diffidenti. In sintesi, è la guerra a spazzare ogni dubbio e a traghettare Zangrandi all’antifascismo. Fatto prigioniero nel 1942, è deportato e incarcerato in Germania, e ritorna in maniera rocambolesca a Roma nell’agosto 1945.
La seconda parte del volume è una dettagliata e impietosa enumerazione degli intellettuali che aderirono al fascismo, talvolta per ambizione personale, per amor di quieto vivere o per gusto della piaggeria. Impressionanti sono le attestazioni di fedeltà al regime che vennero tributate da personalità della cultura che, per il loro prestigio, non sarebbero mai state represse e a cui il regime non chiese nulla.
Essi spontaneamente e senza costrizioni fecero dichiarazioni di stima e fedeltà a Mussolini. Nel lungo elenco Zangrandi nomina tantissimi personaggi del giornalismo, della politica, della letteratura, della magistratura e dell’esercito. Mette in evidenza le contraddizioni di un filosofo come Benedetto Croce, considerato anche da Renzo De Felice il faro della libertà, il quale votò la fiducia al governo quindici giorni dopo l’assassinio di Giacomo Matteotti.
Zangrandi non risparmia Giuseppe Ungaretti, Carlo Emilio Gadda, Giacomo Debenedetti, Salvatore Quasimodo, Ruggero Orlando, Anna Banti, Ennio Flaiano, Emilio Cecchi, Vitaliano Brancati. In questa parte del volume Zangrandi usa tutta la sua ironia per descrivere un mondo culturale che per eccesso di zelo si diede da fare per dare legittimità alle imprese del regime, con diverse responsabilità, ma senza sottrarsi neppure all’approvazione delle tesi razziste e antisemite, come successe a Giudo Piovene.
Zangrandi ci fornisce dei sapidi ritratti biografici dei cedimenti ideologici di tanti colti, cui non risparmia frecciate al curaro. Al lettore non sfugge che questi intellettuali transitarono poi nella Repubblica, conservando ruoli di opinion makers, come successe a Indro Montanelli.
L’autore ricorda anche chi si oppose al regime, spesso persone che rinunciarono o abbandonarono la loro carriera o furono esuli come Gaetano Salvemini, Guglielmo Ferrero, Barbara Allason, Guido De Ruggero, ma anche insegnanti, persone meno in vista, che per la loro non adesione furono del tutto emarginati.
Qui risiede uno dei punti deboli del discorso generale di Zangrandi, perché come lui stesso scrive ci fu chi si oppose al regime e dunque, se è vero, che vi fu la solitudine della sua generazione, è altrettanto vero che le scelte diverse non erano del tutto precluse o sconosciute.
C’è però un ultimo aspetto interessante da considerare, ed è la ricezione del libro di Zangrandi nel dopoguerra. Pubblicato per la prima volta nel 1947 ricevette molte critiche anche da una parte del PCI, cui l’autore si era iscritto. La volontà di Zangrandi era quella di recuperare alla democrazia quelli che erano stati fascisti, perché non avevano conosciuto altra ideologia. Criminalizzarli, emarginarli, non cercare di comprendere le loro scelte sarebbe stato esiziale per il paese e avrebbe consegnato un grande numero di loro a partiti come la Democrazia Cristiana o addirittura il Movimento Sociale Italiano. Pietro Secchia era contrario all’operazione di recupero che Zangrandi proponeva, Palmiro Togliatti al contrario la appoggiò, facendolo diventare un “professionista della memoria” degli ex fascisti transitati poi nell’Italia repubblicana.
Togliatti riteneva che l’opera di reinserimento e di dialogo con chi era stato dalla parte opposta della barricata fosse indispensabile per la tenuta del Paese. Non si poteva “rifare l’Italia con dieci o ventimila persone”, come voleva Secchia, ma bisognava che il PCI si aprisse anche a chi era stato fedele a Mussolini ed era in seguito approdato all’antifascismo e alla Resistenza.
A questo punto si possono fare alcune schematiche osservazioni.
Intanto bisognerebbe interrogarsi sull’importanza che viene ancor oggi attribuita al ceto degli intellettuali, senza comprendere che molti di essi erano e sono gli ingranaggi principali del consenso alle diverse forme di potere e non detengono alcuno statuto speciale che li differenzi dagli altri cittadini. Quando scelgono politicamente lo fanno in base a determinate convinzioni che sono proprie anche di altri strati sociali. La cultura non è sempre uno strumento di critica, se un intellettuale soggettivamente non lo vuole.
Seconda osservazione è che la scelta di Togliatti, consequenziale al suo concetto di amnistia come chiusura di una pagina di guerra civile, non si è verificata invece circa trent’anni dopo: la generazione che aveva manifestato la sua ribellione alla fine degli anni Sessanta e per tutti gli anni Settanta non venne reintegrata nel paese, a meno di pentitismi e abiure e fu davvero dimenticata. Si poté dunque coniare l’espressione “anni di piombo” che nulla spiega della ricchezza di quegli anni e li liquida mettendone in luce solo l’aspetto violento.
Infine, certamente acuire le lacerazioni post-belliche non avrebbe consentito la ripresa del paese. Il problema è che poi il tema del consenso di massa, del ruolo degli intellettuali, del peso che certi loro originali convincimenti potevano aver avuto nella produzione o negli orientamenti successivi è stato davvero poco indagato e il lavacro di una intera classe dirigente ha impedito di analizzare compiutamente il fascismo. L’approfondimento è rimasto appannaggio di una ristretta cerchia di intellettuali motivati, senza diventare coscienza civile diffusa.