Un libro struggente e necessario

Maurizio Cucchi, Sindrome del distacco e tregua, Mondadori, pp. 112, € 18,00 stampa

di ELIO GRASSO

Rilancio, nutrimenti, reattività del poeta dentro le proprie visioni, sono tutte possibilità che scattano non appena lo sguardo interiore si rivolge al mondo, dopo aver esplorato e indagato per anni la storia del padre, tra pudori e abnegazioni linguistiche. I viaggi intimi si abbeveravano ai racconti familiari, oltrepassando i decenni (L’ultimo viaggio di Glenn, del 1999) e tenendo in sé, per sé – ma con continui slanci verso coloro che vogliono ascoltare ascoltandosi – il patrimonio personale lungo i fronti contigui della mente e del corpo terrestre. Le stazioni sono lombarde, ma in certi momenti appaiono quelle balcaniche, le russe, e ciò che la parola guerra è stata realmente sui campi deflagrati. L’odissea paterna non si arrende di fronte all’ostruzione temporale, il secolo è passato e il nuovo deve ancora formarsi (a fatica, a fatica…), Maurizio Cucchi resiste all’indecifrabile epoca, desidera il racconto e le immagini che possano inoltrarlo con l’intera costituzione delle parole. E in Sindrome del distacco e tregua sono integrate due immagini compagne, la prima nel torbido bianco e nero, segno di neve radioattiva, la seconda nel lento dilavarsi della realtà.

Nella prima fotografia la vecchia con bastone e fardello incede nei pressi di Pryp’jat’, la città abbandonata dopo il disastro nucleare alla centrale di Černobyl’, discosta pochi chilometri. Nell’altra fotografia è ritratto un murale nella vecchia amata Nizza, forse già scomparso sotto le raschiature del tempo e degli uomini. Ben più che omaggi al dolore e alla resistenza, e ai necessari amori del poeta verso luoghi geografici già stati sede di duri sentimenti.

Gran parte della ricerca di Cucchi in questo libro si avvia nel Penitente di Pryp’jat’, emblema ucraino del disastro, dove tutto è luminescenza e dove la natura attua i propri esperimenti dopo che gli uomini hanno fatto impazzire gli atomi in pochi secondi. La vecchia non si cura dell’aria radioattiva, ma Cucchi si cura di lei con questa suite dall’emozionante incedere narrativo e frugalmente lirico. Ora c’è una sinistra quiete, in cui sono immersi animali dai colori strani mentre alcuni resistenti vanno in cerca di una pace dentro la morte dell’antico equilibrio e la vita dei mutanti. Ma tutta la raccolta nasce intorno al desiderio della prosa, affermato in Felicità frugale e La chiave di volta,anche se per tutto il libro persiste lo scandalo del dramma espresso nella compattezza e nella composizione. Fino al termine ultimo che dice qui brucia tutto, tutto è combusto, quel che si amava in origine ora si compiange nei pressi delle ceneri.

Perché lontano da Milano si sono giocate altre partite, combattute diverse guerre avverse al cuore delle genti, rappresentate decisioni e tecniche di sopravvivenza, e altri prodigi di scrittura. Cucchi in passato accarezzava, ora allunga mani energiche, che scolpiscono. Un preciso mandato conoscitivo, a questo punto della storia necessario all’orientamento, poiché finché si resta in vita il compendio della poesia è la raccolta di tutti i luoghi vissuti e sognati, ancora vivi o distrutti da forze funeste. Dentro Sindrome del distacco e tregua resistono e insistono orizzonti europei dove il poeta deve far atto di presenza, deve confermare quel che di più concreto ha nelle tasche e giù nelle gambe. Se fosse solo distacco non vi sarebbe tregua, e la tregua non è un bel fare quando non si è più tanto disposti a conciliare e fotografare l’èra odierna.

L’approdo a un libro “struggente, necessario” (Alberto Bertoni nel risvolto) è la vera “dimora dove ritorno”, per Cucchi il volto di diverse cose, così come per noi coetanei che ancora vorremmo esordire in un’epoca ormai aliena. Ma piace pensare che la forza di opere come questa vadano oltre i paesi fantastici, e che le antiche fabbriche del reale e del pensiero mostrino ancora i magazzini, i depositi delle merci meravigliose realizzate e poi fatte consumare dal secolo. Sia Milano, o Francia, o Ucraina, non deludiamo la ruvidezza colma di pietà che vorremmo fosse visibile in tutte le frontiere.

A cosa serve la poesia? A questo.