Si può recensire una vita? Le variazioni sono tante e uniformi, alcune geniali, nell’ultimo libro di Emanuele Trevi, Due vite, che subito diventano tre se vi comprendiamo l’autore mentre drappeggia le brevi esistenze di due amici. Molto più che amici. Molto più che amate persone, scrittori, alle prese con i loro precetti. Gli enigmi e i segreti che hanno accompagnato Rocco Carbone e Pia Pera diventano dolori e bellezza dei decenni che Trevi ha vissuto in loro compagnia. Che fossero gli amici a braccarlo, o fosse Trevi a cercare (e trovare) fondazioni e sfide nel groviglio degli anni vissuti, nelle opere concluse e inedite, pubblicate e fantasmagoriche nel campo aratissimo delle lettere italiane, quanto leggiamo in questo libretto morbido e nervoso dà molto valore alla nostra immaginazione – a noi che Rocco e Pia non abbiamo conosciuto ma che forse avremmo dovuto conoscere, secondo le circostanze, per dare più carica agli argomenti personali.
Ma in fondo ci bastano, e ne godiamo, gli argomenti sigillati in Due vite, che ripercorre gli anni di amicizie dove ossessioni prensili aprono a situazioni e opere temerarie. Dagli incontri fortunati, e arricchiti di comunioni ininterrotte, alla fine calata come piombo giù dal cielo per Carbone e invece fatta d’inesorabile lentezza per Pera. Se ci tocca morire, per uno schianto o per una malattia che assottiglia tutti i giochi di una partita, resta da vedere quanto si è vissuto prima di arrivare a quel punto. Prima del limite c’è un patrimonio da considerare, da tenere stretto: può essere nella smania di montare e smontare gli oggetti letterari secondo le astrazioni strutturaliste per poi giungere a romanzi in cui i personaggi sono apparizioni della psiche colte nella loro ineluttabile identità. Figure che Trevi definisce piene di significato e che, pur somigliandoci, sono più perfette di noi e destinate a durare così come le opere dell’amico Rocco Carbone. La cui insistenza su un autore come Carlo Emilio Gadda non è certo casuale. Così come non lo è, per Pia Pera, la consistente insistenza (e non solo per motivi lavorativi) sulla letteratura russa verso cui era orientata la bussola della sua capacità nel tradurre con leggerezza (“malizia e intelligenza scintillante”) l’Onegin di Aleksandr Puškin.
Per Trevi (e non solo per lui) le capacità umane si nutrono di fantasmi e sperimentazioni rivelati nelle opere degli scrittori – non tutti gli scrittori, certo, si dimensionano in questa scelta. Ma Rocco e Pia, inequivocabilmente sì. L’amica, fra l’uso di vocaboli diretti, senza recinti divisori fra erotismo e pornografia, conquistò a un certo punto della sua esistenza gli spazi del vegetale, la ricchezza trovata nello spazio del giardino. Centrando il lato ecumenico del luogo amato, resistendo alla morte al punto da non confessare che stava per andarsene per sempre. Trevi rivela interminabili discussioni con gli amici ma diventa incrollabile in Due vite la fede, gremita e trasudante, nell’universo di traversie e smottamenti, di pericoli e complessità umane e letterarie. Il tutto sotto l’amplissimo cielo di Roma. Nelle strade e nei giardini della città capitolina si evolve e si consuma tutto quanto è racchiuso fra la nascita e la morte per incidente automobilistico e SLA.
Il memoriale di Trevi trova un proprio spazio, una nicchia, nei congegni messi in atto dagli amici scrittori. Nessun trucco nei loro lavori, se mai la messa in atto, per entrambi, della definizione di “libertino”. L’amabilità ironica e maliziosa della “signorina inglese” (appunto) Pia Pera. L’avventurosa spietatezza, un po’ agonistica, di Rocco Carbone. Resta evidente, attraverso il racconto, come le ultime propaggini, tossiche, del secolo (il Novecento) non potessero che sacrificare queste due vite. Sull’esperienza sovrasta, pur nella sua piccola misura, l’immagine di un quadro epocale: L’origine del mondo. La rivelazione estetica un giorno apparve, a tutti e tre gli amici, nelle sale del Musée d’Orsay, e li vincolò per sempre. Con questa visione inizia e finisce Due vite, come a definire le immense energie di esistenze senza le quali saremmo immensamente più poveri.
Ci sono libri ostili, fra cui alcuni indimenticabili. Questo libro appartiene alla seconda categoria: potrebbe tratteggiare esistenze inventate, mai venute al mondo, eppure sarebbe sempre il contrario di un’avarizia letteraria. Il modo di amare la vita non vi resta velato, segna distintamente quel luogo di sconfinamento chiamato desiderio. Lì incontriamo il giardino muliebre dipinto da Gustave Courbet dove abita l’esercizio carnale e spirituale della scrittura. Da uno scaffale (forse la vetrina di una credenza) L’origine del mondo riappare, dopo molti anni, in una cartolina spiegazzata mentre le ombre di un giardino si allungano nella stanza.