Lev Tolstoj, Guerra e pace, tr. di Emanuela Guercetti, Einaudi, pp. X, 1574, euro 25,00 stampa, euro 6,99 epub
di Yael Artom
Come tanti, ho avuto una fase russa in adolescenza, ma la mia si è concentrata su Dostoevskij. Ho letto altri autori russi più tardi, con meno frequenza e intensità. Per anni, Guerra e pace è rimasto in un cantuccio, un debito da saldare, una piccola onta di lettrice. Di fronte a ogni libro da un migliaio di pagine, una vocina mi diceva “Ma allora prima di questo dovrei leggere Guerra e pace.” Tante cose nella reputazione di uno dei romanzi più famosi del mondo sono atte a scoraggiare: la sua lunghezza, il numero dei personaggi, l’ambientazione storica, la nomea di mattone per antonomasia, e così alla fine rinunciavo.
Qualche mese fa mi sono trovata di nuovo davanti un romanzo da 1500 pagine, e ho di nuovo sentito la stessa vocina, ma, più vecchia e più saggia, stavolta mi sono detta “Proviamo! Meglio di niente! Se voglio posso interrompere, e poi riprendere. O perfino non riprendere!” È bastato questo. Ho letto il primo volume, ho fatto un’interruzione, e durante l’estate leggerò il secondo. Al momento, posso dire che è lungo, ma non è un mattone. Non mi sento disorientata in una vertigine di personaggi: quelli importanti si ricordano, e per le comparse, pazienza. L’ambientazione storica è precisa, ma le situazioni sono universali. Ho raccontato ad alcuni conoscenti che l’avevo cominciato, e ho scoperto che le mie paure sono condivise da molti. Un’amica mi ha detto “Ma è un libro da leggere a quindici anni” presumibilmente per la sua lunghezza. Sarebbe certamente stato un romanzo diverso: forse avrei amato di più Nikolaj e Nataša, ma probabilmente avrei riflettuto meno sull’inaspettata prospettiva storica o sulla sensibilità di Tolstoj per l’universo femminile o su come in fondo la guerra e la pace continuino a essere le stesse.
Un altro amico mi ha chiesto, una volta finito, di dirgli se ne valesse la pena. Per il momento, di certo sì: basta essere pazienti, non con Guerra e pace, ma con sé stessi.
Giuseppe Berto, La gloria, Neri Pozza, pp. 208, euro 16,00 stampa, euro 9,99 epub
Giuseppe Berto, Il male oscuro, Neri Pozza, pp. 512, euro 18,00 stampa, euro 9,99 epub
La gloria è un romanzo pubblicato nel 1978, due mesi prima della morte dell’autore. Giuseppe Berto (in corso di ripubblicazione dal 2016 per Neri Pozza) è stato scrittore controverso, isolato in vita e postumo. Ha pagato le scelte giovanili di destra e il non aver poi abiurato e abbracciato la sinistra; ma, soprattutto, l’essere irriducibile ad entrambe. Afascista, con l’alfa privativa, si definiva in un discorso-manifesto dei primi anni Settanta.
Nella prima parte di Il male oscuro, il suo romanzo più famoso (1964), racconta la fascinazione, da bambino, per le camicie nere, per la prepotenza e l’ostentazione della forza. Sfacciato, semplice e infelice, in quella sua ricerca – già allora – della gloria. Il bambino poi cresce, lotta con il padre anche dopo la morte di questo, si perde e si innamora, senza mai perdere quello sguardo su sé stesso dall’ironia travolgente, che lo salva da ogni retorica. Berto insegna qualcosa che non so quale altro scrittore o scrittrice sia riuscito a fare altrettanto bene: a non curarsi della propria reputazione. Non c’è costruzione ma l’onesta ammissione del sé, della propria nevrastenia, della solitudine. Uno scrittore senza eguali per calmare di notte quando non si riesce a dormire in preda a pensieri angosciosi.
In La gloria è Giuda Iscariota a parlare in prima persona, in un thriller psicologico con Gesù dalla fine già nota. Cosa sarebbe del Cristianesimo se Giuda non avesse tradito? Gesù deve morire, altrimenti non ci sarà salvezza. Giuda acconsente ad essere il traditore prescelto, accettando per tutti i secoli a venire la reputazione che discende dal suo gesto; il fango, l’infamia e la perdizione, per la gloria di qualcun altro. Che poi, sarà vera gloria, quella di un Gesù scostante, di una durezza affascinante quanto contradditoria? Giuda esegue nonostante il dubbio. “Non sapevo rinunciare all’altero diritto di capire”, dice, interrogandosi sull’agire oscuro del Rabbi, sull’assenza della fede e – tuttavia – sul persistere dell’amore e della dedizione; sulle insondabili e discutibili strade di quello che, con tanta leggerezza e senza mai ritornare sui nostri passi, definiamo il bene.
Jim Thompson, Colpo di spugna, tr. di Anna Martini, HarperCollins, pp. 288, euro 15,00 stampa, euro 6,99 epub
Charles Dickens, Il Circolo Pickwick, tr. di Marco Rossari, Einaudi, pp. 818, euro 15,00 stampa, euro 4,99 epub
Ci sono due tipi di libri che si leggono specificamente in estate: quelli che ti incuriosiscono, ma che non trovi il tempo di iniziare, e quelli troppo poderosi, che comunque non hai il tempo di concludere. Ma la bella stagione porta anche un’opportunità di rilettura, per capire se gli anni che scorrono incidono in maniera determinante sull’esperienza originaria.
La prima volta che lessi Colpo di spugna, probabilmente il punto di sintesi della scrittura di Jim Thompson, era inizio estate. E come ogni estate, si trattava di un momento in cui virare felicemente verso le trame di genere, in questo caso un noir incastrato perfettamente nelle maglie del sarcasmo. Una sbalorditiva carrellata di personaggi sopra le righe, che si muovono attorno a una trama inaspettata e mutevole, in grado di alterare di pagina in pagina l’inquadramento fatto dal lettore nei confronti dei protagonisti. Con una prosa asciutta e diretta, Thompson ci fa spazio nelle mente oscura dello sceriffo Nick Corey, aprendo un varco nella società americana dalla morale ambigua, dove astuzia e crudeltà diventano strumenti indispensabili per sopravvivere in un contesto di degrado morale e violenza latente.
Ma poi l’estate è anche il tempo per tornare in luoghi in cui non sono stato, nell’Inghilterra ottocentesca di Il Circolo Pickwick. Letto a pezzetti, ascoltato come audiolibro, intravisto nell’adattamento Rai, rincorso in radio, a teatro, nella voce di Sammy Davis Jr., nella parodia di Topolino… finalmente è tempo di gettarsi appieno nell’umorismo cerebrale di Dickens, immaginando di poter ancora affrontare viaggi picareschi, al fianco di personaggi indimenticabili, calati in un universo narrativo maestosamente nostalgico. Perché, se alla fine del giro quei personaggi di carta ti mancano davvero, allora sei certo di aver scelto il libro giusto.
Pierre Drieu La Rochelle, Fuoco fatuo seguito da Addio a Gonzague, tr. di Donatella Pini e Maria Pia Tosti Croce, SE Edizioni, pp. 160, euro 20,00 stampa
Si richiede un atto d’amore per questa rubrica. Non le ultime uscite o le scoperte interessanti ma i libri che uno legge e rilegge, che quasi conosce a memoria come gli uomini-libro di Fahrenhait 451. Dopo lungo interiore travaglio, scelgo un libro catartico: Fuoco fatuo di Pierre Drieu La Rochelle, la storia, pubblicata nel 1931, dell’ultimo giorno di un suicida. Il protagonista, Alain, è ispirato alla figura reale di Jacques Rigaut, intimo amico dell’autore, come lui fiancheggiatore/avversatore di Dada e del Surrealismo, che si uccise nel 1929 a New York (non a Parigi come Alain): “bello come un attore cinematografico, perdigiorno di spirito”, come lo descrisse Matthew Josephson, un comune amico americano. Piuttosto che la nausea di Sartre, è lo spleen di Baudelaire, a condurre Rigaut/Alain alla decisione opposta a quella di Roquentin nel quasi contemporaneo romanzo sartriano. Anche Drieu la Rochelle, divenuto nel frattempo un fascista e, dopo l’invasione tedesca della Francia, un collaborazionista, condividerà lo stesso destino: “mi sarebbe piaciuto far parte della confraternita dei suicidi: a conti fatti è una bella confraternita…”, aveva scritto in un suo diario, e così si rivolse per lettera ai partigiani: “Siate fedeli all’orgoglio della Resistenza, come io sono fedele a quello della Collaborazione. Non barate come non baro io. Condannatemi a morte. […] Sì, sono un traditore. Sì, ho collaborato con il nemico. Ho offerto la mia intelligenza al nemico. Non è colpa mia se quel nemico non era intelligente. […] abbiamo giocato e io ho perduto. Esigo la morte”. Alla lettura dovrebbe accompagnarsi la visione dell’omonimo film girato nel 1963 da Louis Malle (secondo Truffaut il suo film più bello), colonna sonora di Erik Satie (alcune Gnossiennes e Gymnopédies), protagonisti Jeanne Moreau e uno splendido, toccante Maurice Ronet. Nel film la tossicodipendenza da eroina del protagonista, per motivi di censura, diventa semplice alcolismo e la storia viene attualizzata agli anni ’60: Alain si sparerà usando la pistola d’ordinanza da ex ufficiale dei Parà in Algeria. Un libro (e un film) catartico, dicevo, che scava nel profondo del fallimento e della sconfitta, squadernando la passione dolente di un amore non corrisposto, non (solo) per una donna ma per la vita stessa. Da leggere in una giornata di pioggia, al vento di maestrale.
David Foster Wallace, Infinite Jest, tr. di Edoardo Nesi, Einaudi, pp. 1296, euro 22,00 stampa, euro 8,99 epub
Ci sono libri che sappiamo di dover leggere anche se non li leggiamo mai, e ci sono libri che ci appartengono anche se non siamo riusciti a leggerli del tutto, ma a pezzi, magari solo e sempre le stesse pagine iniziali: uno di questi è Infinite Jest di David Foster Wallace, il cui numero di pagine è effettivamente disincentivante alla lettura, anche se trovo accattivante la copertina, con quelle nuvole indefinite.
Sono convinta sia un libro di grande fascino, e non solo per via del fatto che conosco tanti che lo hanno letto e apprezzato, ma soprattutto perché in un bellissimo film d’amore tra vampiri, Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmush, Tilda Swinton – nelle vesti di un’immortale che dedica il suo tempo alla lettura di una vasta quantità di libri, scritti tra l’altro nelle lingue più disparate – preparando la valigia per recarsi dal suo amato, porta con sé proprio questo tomo di Wallace: da quel dettaglio nel film ho capito che dovevo leggerlo, che sarebbe stato “mio” anche perché l’infinita visione del titolo di Wallace, è una visione cinematografica.
L’immagino come un libro che per la sua insolita struttura narrativa, per la particolare cronologia, per i tanti narratori e per la incredibile quantità di note potrebbe scuotermi, predispormi a interrogativi nuovi, a uno sguardo inedito sul mondo, un libro che potrebbe essere, come direbbe Kafka, una “scure per il male gelato dentro di noi”.
Sinceramente, anche l’autore statunitense è dotato di grande fascino: si tratta per alcuni del più grande scrittore degli ultimi trent’anni. Un uomo che nasce in un posto dal quasi omerico nome (Ithaca – 1962), convive già ventenne con la depressione, muore suicida neanche cinquantenne (Claremont – 2008) e, nel suo ultimo giorno, termina di correggere un manoscritto lasciandoci, come ultimo inedito, la sua lettera d’addio scritta alla moglie prima di togliersi la vita che non so se leggeremo mai.
Lev Tolstòj, Guerra e pace, cura di Igor Sibaldi, Mondadori, pp. LXXVIII-1334, euro 16,00 stampa
Simone de Beauvoir, I mandarini, tr. di Franco Lucentini, Einaudi, pp. 784, euro 16,00 stampa
di Anna da Re
Per me quest’estate avrà due riletture. La prima è Guerra e pace di Lev Tolstòj. Ero molto giovane quando l’ho letto, e avevo quella avidità e impazienza che si hanno quando ci si comincia a rendere conto di quanti libri importanti e belli ci sono, di quanto poco sappiamo, di quanto siamo già indietro rispetto a dove vorremmo essere. Così leggevo velocemente, e ora del romanzo ricordo dei frammenti, i balli, i sentimenti, le battaglie un po’ noiose. Ma ricordo anche la bellezza di trovare sentimenti che provavo anch’io e di potergli dare delle parole, ricordo la profondità dello sguardo e la comprensione e anche l’affetto, che dall’autore verso i suoi personaggi arrivava anche a me. La ricordo come una lettura piena e che riempiva, saziava. Ora lo leggerò con calma, come si conviene a un’opera immortale.
L’altra rilettura in programma è I mandarini di Simone de Beauvoir. Qui il desiderio di rileggerlo mi è arrivato da diverse suggestioni: una lettura ad alta voce di Marco Polo in cui è ritornata quella parola, “mandarini”, che si usava tanto negli anni Settanta e poi è quasi scomparsa dal nostro vocabolario; considerazioni sul ruolo degli intellettuali nel nostro tempo, qualcuno che è tornato a usare la categoria “mandarini’ per indicare un modo di governare (o di opprimere), e non ultima la raccolta di articoli di Bernardo Valli, Se guardo altrove, in cui si parla di questo libro e di de Beauvoir. Anche I Mandarini l’ho letto da giovane, avidamente e appassionatamente. Sono sicura che mi sembrerà di non averli mai letti, questi due romanzi: c’è questo di magico, nei libri: che cambiando noi cambiano anche loro, pur restando uguali.
Christoph Ransmayr, L’inchino del gigante. Cinque brevi libri di viaggi e metamorfosi, tr. di Marco Federici Solari, L’Orma Editore, pp. 256, euro 22,00 stampa, euro 9,99 epub
Ruth Kvarnström-Jones, Le formidabili donne del Grand Hôtel, tr. di Francesca Toticchi, Nord, pp. 480, euro 19,00 stampa, euro 9,99 epub
L’inchino del gigante: talmente lucido e reale nelle descrizioni di viaggi e uomini e
realtà da essere in grado di condensare nei racconti tutti i grandi problemi, la loro
origine storica e di imposizione sociale del Novecento e del nuovo secolo. Come un
obiettivo che scandaglia non solo le vicende ma anche l’anima che le abita. Da grande viaggiatore e avventuriero quale è, l’autore questa volta, non solo trasforma gli spazi e gli ambienti in luoghi, innescando nella mente del lettore un vero e proprio piano sequenza che segue esattamente gli occhi del narratore (che di volta in volta cambia: il gorilla, l’abitante dell’abisso, ecc.), ma si cimenta con le interconnessioni che tutto ha con l’essere che dovremmo conoscere meglio e invece è sempre fonte di nuovi enigmi – l’uomo.
Il libro dell’estate, ovvero il romanzo da ombrellone non frivolo la cui narrazione ricca di particolari tiene incollati al lettino. Non una foliazione esigua, anzi 480 pagine dense di avvenimenti storicamente veri nella Stoccolma del 1901, nella quale il diritto di voto era negato alle donne ma anche gli uomini dei ceti bassi. E che fare se l’albergo che ospiterà la cerimonia del Nobel sta fallendo? Viene nominata una donna alla direzione, con tutte le difficoltà che ne conseguono: dal non essere ascoltata al dover svolgere da sola anche la bassa manovalanza. Nascerà così una vera e propria insurrezione delle donne che lavorano al Gran Hotel. Una storia di grandi riscatti, di solidarietà tra donne e tra esclusi, di emancipazione e di cambi di paradigmi. Il contrasto con le vite privilegiate degli ospiti rivela anche le fragilità di un mondo sulla soglia del cambiamento, in bilico tra le regole (e i valori) della vecchia società e le sfide del nuovo secolo.
Lydia Millet, I figli del diluvio, tr. di Gioia Guerzoni, NN Editore, pp. 208, euro 18,00 stampa, euro 8,99 epub
Ho riflettuto per giorni sull’assenza della crisi climatica dalle campagne elettorali per le europee e per le elezioni generali nel Regno Unito e in Francia e mi è tornato in mente I figli del diluvio (2020) della statunitense Lydia Millet (1968) che stazionava da anni nella mia eterna, infinita reading list. Durante un’estate, alla foce di un fiume sull’oceano Atlantico, un gruppo di ex compagni di scuola ha organizzato una rimpatriata affittando un’enorme casa e portandoci anche i figli: i primi impegnati in vacue conversazioni che inesorabilmente finiscono in sistematiche ubriacature serali e gli altri presi da avventurosi e pericolosi giochi di iniziazione e incontri imprevisti.
Ecco, rapporti intergenerazionali disfunzionali e catastrofe climatica mi sembrano una combo perfetta per una lettura estiva di intrattenimento non banale. L’attesa di una catastrofe – che la consideriamo più o meno imminente a seconda di quanto sposiamo tesi negazioniste e preferiamo procedere senza intaccare il nostro stile di vita – è forse un po’ dissonante con la scanzonata allegria che l’estate porta con sé: allora è proprio il momento migliore per immergersi una realtà finzionale che, in verità, è già la nostra tragica realtà concreta. Nel caldo sempre più asfissiante dell’estate appena iniziata vorrei cercare e trovare in questo romanzo legami non scontati con il futuro.
Daniel Defoe, Robinson Crusoe, tr. di Stanislao Nievo, Giunti, pp. 448, euro 7,50 stampa
È il libro più tradotto del mondo dopo la Bibbia, scrive Stanislao Nievo nell’introduzione alla sua traduzione (1993), è un libro che si ha l’impressione di aver letto anche senza averlo letto. Per questo nemmeno io ho mai sentito il bisogno di leggerlo: mi sembrava di conoscerlo già. Poi il 3 giugno – cadeva il centesimo anniversario della morte di Franz Kafka – mi sono imbattuto in questo passo di Egli (“Er”, 1920): “Se Robinson non avesse mai abbandonato il punto più alto o meglio più visibile dell’isola per conforto o umiltà, o paura, o ignoranza, o nostalgia, sarebbe perito molto presto; siccome invece senza riguardo alle navi e ai loro deboli cannocchiali, si diede ad esplorare tutta la sua isola e a goderla, si mantenne in vita e alla fine, per logica conclusione razionale, venne trovato”.
C’è tutto Kafka qui dentro: l’inversione di causa ed effetto, la riscrittura rovesciata della parabola di Davanti alla legge, il principio per cui non è colui che cerca a essere trovato, ma colui che rinuncia a cercare. Ho rovesciato quel rovesciamento e ho pensato che tra i Robinson molteplici, immaginari e infiniti, era arrivato il momento di leggere l’originale. Robinson Crusoe di Daniel Defoe.
Dopo aver letto Tutto questo fuoco, il romanzo della spagnola Ángeles Caso sulla vita delle sorelle Brontë, voglio andare alla scoperta della più giovane delle tre sfortunate quanto geniali scrittrici. Messi in ombra dal successo ottenuto da Charlotte ed Emily con Jane Eyre e Cime tempestose, i romanzi di Anne sono da sempre considerati “minori”, come se la piccola di casa, più riservata e mansueta, fosse tale anche nei suoi scritti. In realtà, Anne dimostrò una tenacia, una forza d’animo e un coraggio pari, se non superiore, alle sue sorelle. Innanzitutto guadagnandosi da vivere per cinque anni come istitutrice; poi scrivendo due romanzi di intensa critica alle convenzioni sociali dell’epoca. In particolare il secondo, La signora di Wildfell Hall, uscito nel luglio 1848 con grande successo, ma successivamente caduto nell’oblio per i temi forti che vengono trattai.
A discapito della giovanissima età (Anne morì a 29 anni) e della poca esperienza accumulata, e probabilmente senza aver mai avuto una relazione amorosa, Anne riuscì ad andare oltre rispetto alla scrittura delle sorelle maggiori, mantenendo i temi della passione e del riscatto femminile ma ponendoli all’interno di una feroce critica al principio fondante della società vittoriana: il matrimonio. E lo fece in modo esplicito e quasi brutale, senza edulcorare nulla, creando una protagonista, Helen, lontana dal modello di donna dell’epoca e che cerca di ottenere la propria indipendenza – economica, morale, di scelta e giudizio – combattendo contro ogni ideale romantico dell’amore e del vincolo coniugale, dimostrando una modernità che solo i grandi geni letterari possono fare.
Eugenio Montale, Ossi di seppia, Oscar Mondadori, pp. 135, euro 12,00 stampa, euro 7,99 epub
di Elio Grasso
La realtà della poesia osservata da Eusebius, poeta ligure a cui il mare infondeva più timore che fedeltà, e dunque quasi mai allontanandosi della concretezza terrestre (quanta attenzione è stata dedicata dai critici novecenteschi al suo “abbandono” delle radici optando per regioni e città ben lontane dalla Riviera?), si fonde in lungo e in largo e parallelamente alla scrittura dei suoi versi: quella famosa “leggerezza”, chiave che mette in chiaro la memoria, i sogni, le digressioni incontrate durante la lettura sia delle singole raccolte (il Libro a cui ha dato vita nel corso di un trentennio, e il successivo “secondo tempo”).
L’edizione di Ossi di seppia, destinata ai giovani attraverso l’introduzione “pedagogica” di Giuseppe Montesano, riporta il tutto alle nostre stagioni scolastiche e alle successive: fino al tempo attuale dove bastano i primi versi di Riviere («Riviere / bastano pochi stocchi d’erbaspada / penduli da un ciglione / sul delirio del mare…») per ritrovarci lontani da chi “s’arrende per poco” e invitare a sciogliersi dalle sciocchezze. Gran epoca quella in cui si poteva affermare: “i libri di poesia hanno il tempo dinanzi a sé e possono ignorare le leggi del rapido consumo”.
Damir Ovčina, Preghiera nell’assedio, tr. Estera Miocic, Keller editore, pp. 697, euro 24,00 stampa, euro 15,00 epub
Il monumentale romanzo di Ovčina rappresenta, più di ogni altro scritto sull’assedio di Sarajevo, la congiunzione perfetta tra una recherche proustiana e una clessidra. È una narrazione che simula il tempo reale delle ore di quella primavera del 1992 nella quale – giorno dopo giorno – la Bosnia si sentì stringere al collo il cappio che l’intera Europa aveva affidato ai sanguinari nazionalisti serbo-bosniaci, tramite i piani etnici di Milošević.
Preghiera nell’assedio esige la massima lentezza nell’approccio. Pretende attenzione profonda verso particolari apparentemente irrilevanti in cambio di un’ansia sottile, fatta di rumori, sospetti, scoppi, porte chiuse troppo debolmente, momenti dolcissimi e notti insonni. Se il lettore accetterà il ritmo del maratoneta e lo manterrà costante lungo il corso del romanzo, vedrà compiersi sotto i suoi occhi il vero miracolo letterario dell’autore bosniaco: un mosaico di istantanee, simili alle vecchie Polaroid, messe le une accanto alle altre senza alcun giudizio morale o alcuna aggiunta psicologica; una collezione interminabile di piccoli momenti quotidiani lunghi mesi e anni, recuperati con precisione di brevità, che assumono gradualmente, progressivamente gli odori e i contorni della guerra vera, fino a vibrare sulla pelle.
Ho interrotto decine di volte la lettura del romanzo, proprio per una forma di ingenuo rispetto verso questo stile unico, verso il respiro con cui è stato scritto. Immergervisi interamente avrebbe significato attraversarlo in apnea, quindi imporsi la necessità di terminare un altro Infinite Jest o un ennesimo Ulisse solo per potersi gratificare del risultato. Il cammino di Preghiera nell’assedio invece si fonda sullo straniamento, sulla capacità di percepire dalla nostra comfort zone le origini impalpabili dei conflitti nella vita degli individui. E poi illudersi di accompagnare questi individui (senza farli mai diventare personaggi) verso una salvezza che pare fiorire soltanto tra le più cruente minacce.
Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale, tr. di Yasmina Mélaouah, Bompiani, pp. 592, euro 16,00 stampa, euro 7,99 epub
Harun Farocki. Pensare con gli occhi, cura di Luisella Farinotti, Barbara Grespi, Federica Villa, Mimesis, pp. 390, euro 28,00 stampa
di Lorenzo Mari
Da alcuni anni – per una sorta di imperativo morale un po’ paradossale, come può accadere nei confronti dei classici (e del piacere della lettura, che vale anche per essi) – mi sono impegnato ad affrontare l’opera omnia di Gustave Flaubert. Sarà così anche nei prossimi mesi: benché il testo più adatto ai capogiri e alle morgane estive sia forse La tentazione di Sant’Antonio, per l’estate del 2024 scelgo L’educazione sentimentale, uscita da qualche mese nella nuova traduzione di Yasmina Mélaouah. Elogiata da Alessandro Piperno e molti altri, la nuova traduzione si propone come impresa non da poco, specie se rapportata all’acribia stilistica flaubertiana (che è particolarmente evidente per questa, come anche per l’altra opera citata, se si pensa alle lunghe riscritture da parte dell’autore).
Nel bel mezzo dell’estate cade anche il decennale della morte – ma quest’anno è anche l’ottantesimo anniversario della nascita – di Harun Farocki, cineasta sperimentale tedesco i cui testi teorici più rilevanti sono stati tradotti in italiano e affiancati da un florilegio di importanti saggi critici nell’antologia intitolata Harun Farocki. Pensare con gli occhi. Per questa affascinante figura vale ancora quello che ne scrisse, all’epoca, Luigi Grazioli su Doppiozero, ovvero che non è ancora stato adeguatamente promossa in Italia fa eccezione almeno un importante saggio del 2023: L’indistinzione, scritto da Vincenzo Estremo e pubblicato dall’editore Politi Seganfreddo). Un motivo, fra i molti, di possibile interesse: Farocki è stato il primo a teorizzare le cosiddette “immagini operative”, oggi diventate di fondamentale importanza nel contesto delle cosiddette “intelligenze artificiali generative”. Mi rendo conto: così si arriva quasi a mille pagine, e l’estate è il tempo della lentezza, ma l’auspicio è che questi consigli possano tornare utili anche alla fine dell’estate, e oltre.
Louis Ferdinand Céline, Bagatelle per un massacro, tr. di Giancarlo Pontiggia, Guanda, pp. 306, euro 16,00 stampa, euro 7,99 epub
Bruno Bauer, Karl Marx, La questione ebraica, cura e traduzione di Massimiliano Tomba, Manifestolibri, pp. 22, euro 20,00 stampa
Rileggo due libri anzi tre. Il primo è Bagatelle per un massacro di Louis Ferdinand Céline. Uscito nel 1937 il libro inchioderà Cèline all’emarginazione politica e culturale. L’avevo letto a trent’anni pensando a quanto ci eravamo lasciati alle spalle, lo rileggo oggi e mi chiedo quanto l’odio specifico per gli ebrei sia, senza ombra di dubbio, la materia viva imprescindibile che Céline sceglie e mette in scena per la sua lingua impastata di ripugnanza, rancore e risentimento contro il potere. Céline in questo vomito inarrestabile di scrittura scrive meglio di tutti e anticipa in modo magistrale quel che ancora oggi leggiamo nei social e sentiamo nelle chiacchiere, nei cortocircuiti complottisti, nell’astio per il potere che Céline attribuisce senza remore a una specifica élite. Quella ebraica. Al lettore la scelta: salvare Céline da sé stesso interpretando o immergersi in un buco nero senza fondo.
Un altro libro da rileggere è La questione ebraica di Karl Marx (1843) che ha dato la linea politica alla sinistra marxista sulla questione ma ha anche oscurato con la sua celebrità il libro che Marx recensiva.
È merito di Massimiliano Tomba aver tradotto per la prima volta in italiano – più di 20 anni fa – i due testi di Bruno Bauer che Marx criticava politicamente e averli prefati con una introduzione molto interessante che mette in luce come i testi di Bauer e Marx cerchino “ciascuno a proprio modo, di dislocare la questione [ebraica] nel punto di incrocio di una emancipazione universale”. Scrive Tomba nella sua prefazione che “L’universale, per Bauer, e come sarà per Marx, non si dà come neutralità, ma come posizione di una parte la cui pratica coincide con l’universale”. È stato un libro che ho letto a suo tempo con pigrizia e che alla luce degli accadimenti attuali necessita di una rilettura attenta.
Marco Malvestio, La scrittrice nel buio, Voland, pp. 160, euro 18,00 stampa, euro 7,49 epub
Si mettano il cuore in pace i giornalisti, i critici e gli uffici stampa: i libri per l’estate si scelgono per suggestione, per sentito dire, per singole parole chiave che scatenano delle sostanze chimiche particolari del cervello dei lettori. Se però è vero che un unico indizio non fa mai una prova (in questo caso l’assassino è il romanzo che leggerò appena libera dai doveri, in un bosco o su una spiaggia) le ragioni che mi hanno portato a scegliere il nuovo romanzo di Marco Malvestio sono svariate. Prima cosa: Marco è uno da tenere d’occhio. Classe 91, ricercatore all’Università di Padova, dove insegna Digital Storytelling e Letteratura Comparata, in questi anni si sono potuti apprezzare svariati suoi lavori importanti tra i quali citerei la curatela del saggio (con Stefano Serafini) Italian Gothic an Edinburg companion o il libro uscito per Nottetempo Fantascienza e Antropocene.
Questo è il suo secondo romanzo dopo Annette, uscito per i tipi di Wojtek. Il secondo indizio (o suggestione) è la propensione per il gotico, la fantascienza e le lande immaginifiche del genere, trattato come una cosa seria. Il terzo indizio è la casa editrice: se Voland dice sì a un progetto di narrativa è di per sé una garanzia, perché dobbiamo sempre ricordare che è la casa editrice che ha portato in Italia Abbacinante di Mircea Cărtărescu, le opere Georgi Gospodinov e molto molto altro. Per finire ci sono le parole sulla quarta di copertina e nel convincente incipit. Si parla della misteriosa scrittrice Maria Zanca e della sua relazione con la scomparsa dello scrittore Vittorio Ferretti, del conflitto tra due giovani uomini e di un “mistero letterario venato di sovrannaturale” che si estrinseca grazie a “un sistema di scatole cinesi”. Beh, che dire… Ci ho letto la eco del mio romanzo preferito, ovvero 2666 di Roberto Bolaño. Nel romanzo-mondo del grande scrittore cileno, la trama prende avvio da “La Parte dei critici”: la quest di quattro caparbi ricercatori del loro autore preferito scomparso: Benno Von Arcimboldi. La letteratura come movente è sempre un escamotage gustoso quindi le ragioni sono fin troppe per ricuperare La scrittrice nel buio.
Inès Cagnati, Génie la matta, tr. di Ena Marchi, Adelphi, pp. 184, euro 18,00 stampa, euro 10,99 epub
Ivana Bodrožić, Figli, figlie, tr. di Estera Miočić, Sellerio, pp. 276, euro 16,00 stampa, euro 9, 99 epub
Tra le tante letture che intendo recuperare in estate, ci sono Génie la matta di Inès Cagnati, pubblicato da Adelphi, e Figli, figlie di Ivana Bodrožić. Storie di madri e figlie, e soprattutto storie di donne ai margini, esiliate dalla società. Génie viene rifiutata da famiglia e comunità dopo aver dato alla luce Marie, sembra incapace di ricambiare l’amore infinito della figlia.
Lucija, rimasta immobilizzata a causa di un incidente, è divisa tra la presenza divorante di sua madre e quella di Dora/Dorian. Due romanzi sulla violenza e sull’identità dei corpi, in cui un panorama di desolante brutalità viene interrotto da fuggevoli momenti di tenerezza.
Paul Auster, 4 3 2 1, tr. di Cristiana Mennella, Einaudi, pp. 960, euro 18,00 stampa, euro 9,99 epub
di Tania Tonin
Quando il trenta aprile scorso è esplosa la notizia, siamo rimasti tutti – almeno un secondo – con il fiato sospeso. I titoli di giornale recitavano più o meno così: è morto Paul Auster.
Ecco, Paul Auster è quell’autore che immancabilmente appare nelle liste che stiliamo con i titoli da leggere, con quelli già letti o con quelli da rileggere. Nel mio caso l’autore americano appariva nella prima tipologia di lista, nello specifico associato alla vasta storia – o dovrei dire, storie – pubblicata oramai sette anni fa da Einaudi, 4 3 2 1, finalista al Man Booker Prize 2017.
In codesta lista Auster si mimetizzava bene con molti altri titoli fino a quando, due settimane prima della sua scomparsa, a una fiera del libro notai quasi per caso il volume in lingua inglese. Lo presi, felice e con leggerezza, senza prevedere che, più tardi quello stesso mese, Auster avrebbe lasciato il panorama letterario internazionale senza nuove storie con cui arricchirlo, dopo il successo dell’ultimo romanzo dello scorso anno, Baumgartner. Ho iniziato 4 3 2 1 poco dopo la scomparsa dell’autore, leggendolo quasi con parsimonia – dopotutto ho per le mani le infinite possibilità e le innumerevoli strade di Archibald Isaac Ferguson, e sento di dovermene prendere cura. Allo stato attuale Archie è solo un ragazzino, ma il sole dell’estate lo farà sicuramente crescere.