Il 10 febbraio del 2007, in occasione della ricorrenza del Giorno del Ricordo, nel corso della consegna di onorificenze ai parenti degli infoibati al Quirinale, il presidente Napolitano conferisce la medaglia d’oro al merito civile ai familiari di Vincenzo Serrentino. Questi fu tenente colonnello dell’esercito italiano, dirigente dei Fasci di combattimento di Zara sin dagli albori degli anni Venti, dal 1940 primo Seniore della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, membro del Tribunale Straordinario della Dalmazia (istituito nel 1941 per debellare la Resistenza jugoslava durante l’occupazione militare italiana), prefetto di Zara e capo della provincia durante l’occupazione militare tedesca dal novembre 1943 all’ottobre 1944, quando la città fu liberata. Nel 1946 il suo nome compare nella lista stilata dall’apposita Commissione ministeriale d’inchiesta di civili e militari italiani passibili di accusa presso la giustizia penale militare, coloro nella cui condotta erano “venuti meno ai principi del diritto internazionale di guerra e ai doveri dell’umanità”: con lui, tutti i membri del Tribunale Speciale (tra cui il più celebre Pietro Caruso), che aveva celebrato processi “senza il rispetto delle più elementari norme procedurali”, condannando a morte “anche persone minorenni”. Il suo nome figura nell’elenco CROWCASS (Central Registry of War Criminals and Security Suspects, 1947), compilato dagli Alleati anglo-americani, delle persone ricercate dalla Jugoslavia per crimini di guerra. Catturato a Trieste nel maggio 1945, venne processato dalle autorità jugoslave, riconosciuto come criminale di guerra e fucilato nel maggio del 1947. Nel 1987, il comune di Rosolini (Siracusa), suo paese natale, gli ha dedicato una strada.
Nel febbraio del 2012, durante il programma televisivo di Rai 1 Porta a Porta, che affronta lo spinoso argomento della vicenda delle foibe, viene mostrata una fotografia che ritrae un plotone di esecuzione nell’atto di fucilare alla schiena cinque uomini allineati: ai telespettatori viene detto che si tratta di partigiani comunisti jugoslavi che sparano a degli italiani. In realtà, come gli studiosi sanno bene (cfr. Wumingfoundation) e come si evince chiaramente dagli elmetti dei soldati del plotone di esecuzione, la foto, scattata il 31 luglio 1942, mostra la fucilazione di cinque partigiani sloveni (di cui sono noti i nomi) a opera di militari italiani durante il periodo dell’occupazione dei territori jugoslavi.
La sera del 10 febbraio 2019 la Rai manda in onda un film di cui è co-produttrice, Rosso d’Istria. La pellicola, tanto inverosimile quanto brutale, è un autentico prodotto propagandistico: diffonde paura e odio attraverso un immaginario razzista e un racconto ben poco attinente alla realtà, raffigurando i partigiani comunisti jugoslavi come bestie assetate di sangue e animate da un sadismo innato che aggrediscono vittime innocenti: degli italiani, fascisti dichiarati. Gli eroi del film sono mostrati in camicia nera, invocano apertamente il Duce e aspettano come manna dal cielo un esercito di “liberazione”, quello nazista, bei giovanottoni che danno l’idea di riportare la pace, laddove gli efferati partigiani slavi avevano scatenato guerra, odi e vendette: con una netta scelta ideologica, lo spettatore è portato a schierarsi con le “vittime” fasciste di un crimine commesso dai comunisti.
Questi tre macroscopici esempi, scelti da una folta schiera di eventi altrettanto gravi, indicano in modo lampante che nel nostro Paese la complessa vicenda delle foibe e delle violenze nei territori del confine orientale è da anni oggetto di una gravissima distorsione fattuale e di un accentuato uso propagandistico della storia, operati a più livelli: storiografico, istituzionale, dell’immaginario collettivo.
Nel primo caso si intralcia e si destabilizza il lavoro di ricerca, e d’una corretta divulgazione degli avvenimenti occorsi sul confine orientale, da parte di studiosi seri che intendono ricostruire accuratamente i fatti e i contesti in cui questi presero forma, il modo in cui vengono narrati. A livello istituzionale, si accreditano versioni false e distorte degli eventi con ambigue dichiarazioni delle più alte cariche dello Stato e paradossali riconoscimenti (uno Stato nato dalla liberazione dal fascismo che conferisce medaglie a fascisti conclamati e criminali di guerra?), sospensioni di contributi finanziari alla ricerca ad associazioni o individui che non si attengono alla comune vulgata diffusa sulla vicenda delle foibe (come nel caso del Consiglio regionale del Friuli Venezia Giulia). A livello di immaginario collettivo, con la martellante diffusione di mistificatori luoghi comuni operata dai media, la creazione di fiction non solo televisive che incidono a fuoco nelle menti di spettatori ignari delle patenti falsità storiche, capovolgendo di segno la realtà e il suo significato morale.
Questo atteggiamento largamente condiviso produce un clima culturale favorevole a intimidazioni, minacce, insulti mediatici e infamanti accuse di “negazionismo” e “riduzionismo”, animato dalle forze della destra nazionalista e neofascista e volto a screditare il lavoro degli storici, impedire loro di affrontare un tema delicato, di ricostruire e contestualizzare il fenomeno, di raccontarlo in maniera corretta.
Di questa pericolosa temperie, che fa vacillare la civiltà di un Paese evocando foschi scenari, porta testimonianza diretta lo storico Eric Gobetti, con il libro E allora le foibe?, pubblicato dall’editore Laterza nella collana “Fact Checking: la Storia alla prova dei fatti”, curata da un altro agguerrito giovane storico, Carlo Greppi.
Gobetti rilegge la vicenda delle foibe e dell’esodo partendo da alcune domande: Di cosa parliamo quando parliamo di foibe? Cosa è accaduto realmente? In che modo e da chi vengono narrati quegli eventi? Con un argomentare stringente, storicamente probante, il libro getta ampia luce sugli eventi occorsi sul confine orientale a partire dal 1943, ricostruendo il contesto in cui essi presero forma e si manifestarono, la storia che li ha determinati, le cause sociali e politiche per cui essi furono in un primo tempo rimossi, quindi, a partire dagli anni Novanta, la falsificazione cui furono soggetti e la narrazione distorta che se n’è fatta, sino ad approdare all’attuale cancerosa situazione, che ha avuto l’ennesima conferma dal modo in cui è stato vissuto e celebrato il 10 febbraio scorso, Giorno del Ricordo.
Gobetti parte dalle peculiarità storiche, geografiche, etniche e linguistiche dei cosiddetti territori di confine (l’espressione “Alto Adriatico” sarebbe forse più neutra), quella fascia di territorio che suppergiù va da Gorizia a Trieste, fino a Fiume e Pola, area oggi divisa tra tre Stati: Italia, Slovenia e Croazia. E subito scardina uno dei presupposti del discorso pubblico intorno alle foibe e all’esodo degli italiani: quei territori non sono italiani “da sempre”, identificare quelle realtà come italiane “è storicamente assurdo”. Furono invece italianizzate a forza dallo Stato fascista, che operò forti oppressioni sulle popolazioni che non si identificavano come italiane, situazione aggravatasi dall’aprile del 1941 con l’invasione della Jugoslavia.
Si affronta poi il trauma dell’8 settembre 1943 e il conseguente primo esodo degli italiani da quelle terre, avvenuto in un contesto di violenze quotidiane anche determinato dalla guerra e dalle durissime vicende dei decenni precedenti. Quindi si smonta il luogo comune che si è andato affermando negli ultimi anni, secondo cui le foibe sarebbero “la nostra Shoah”: per motivazione degli aggressori, tipologia delle vittime, mancanza di una specifica strategia repressiva il paragone è assolutamente fuori luogo, non ha alcun fondamento storico parlare di “pulizia etnica”. In realtà, la volontà dei partigiani jugoslavi fu quella di colpire le persone ritenute responsabili dell’oppressione subita per più di due decenni: i fascisti e i loro collaboratori, le figure di rilievo della struttura amministrativa ed economica che aveva esercitato il suo potere. D’altra parte, lo stesso termine “foibe” (e del verbo “infoibare”) utilizzato per identificare tutte le violenze commesse dalla Resistenza jugoslava e per veicolare un immaginario efferato e terrorizzante “è sicuramente poco corretto”, in quanto “una buona parte delle violenze condotte sul confine orientale non ha nulla a che vedere con le foibe”.
Anche lo stereotipo dell’espulsione forzata “corrisponde ben poco alla complessità dei fatti”; quella dei profughi istriano-dalmati è una tragedia umana legata al mutamento dei confini e degli assetti internazionali conseguenti alla sconfitta militare dell’Italia. Soprattutto, “è il risultato estremo di un circolo vizioso innescato dall’imperialismo italiano e poi dal fascismo. Gli esuli sono le vittime ultime della politica aggressiva del regime, dei crimini di guerra commessi dall’esercito italiano e della sconfitta militare in una guerra che Mussolini aveva ottusamente contribuito a scatenare”.
Gobetti affronta anche il problema dei numeri relativi alla vicenda delle foibe: si ripetono infatti, anche da parte di alti esponenti politici e della divulgazione storica, cifre smisuratamente gonfiate (un ministro della Repubblica parlò di “un milione di morti”), che non trovano alcun riscontro fattuale, e che contribuiscono a diffondere falsi miti e una perniciosa disinformazione, cosa, tra l’altro, che non favorisce la memoria e non denota rispetto per le vittime, usate per squallidi fini ideologici e politici.
Un capitolo particolarmente interessante si sofferma poi sui tanti avvenimenti traumatici legati alla guerra e alla sua fine ingloriosa dimenticati o rimossi, a cui non sono stati dedicati giorni di ricordo nazionale, sulla macroscopica rimozione dalla memoria pubblica italiana dei crimini di guerra commessi dal nostro esercito durante il fascismo e la guerra. Si cerca quindi di rispondere alla domanda: Quali sono le ragioni che portano all’oblio o alla celebrazione?
La conclusione di questo studio è adamantina: invece che rischiare di essere “una commemorazione fascista”, il Giorno del Ricordo “dovrebbe essere una data per ricordare i drammi prodotti dal nazionalismo, dal fascismo, dalla violenza ideologica, dalla guerra e dalla sconfitta militare di un paese mandato al macello in maniera criminale non solo da Mussolini ma da tutta un’élite politica, militare ed economica che non ha mai pagato per le sue colpe”.
Già, ma se così fosse l’Italia sarebbe un Paese civile.
Eric Gobetti è uno studioso che si occupa di fascismo, Seconda guerra mondiale, Resistenza e storia della Jugoslavia nel Novecento. Lo abbiamo intervistato per parlare del suo ultimo lavoro – E allora le foibe? – e sul suo impegno per stabilire la verità storica e la corretta narrazione delle controverse vicende accadute sul confine orientale.
Per la sua attività di ricerca e divulgazione storica di un tema complesso e controverso come quello delle foibe e delle violenze occorse sul cosiddetto confine orientale, lei è spesso fatto oggetto di minacce e insulti mediatici. In che modo e fino a che punto questo clima intimidatorio ostacola o inibisce il suo lavoro?
La condizione di continua tensione a cui sono sottoposto non è certo facile da reggere, psicologicamente. Ma si tratta di una forma di intimidazione anche economica, soprattutto quando arriva sotto forma di discredito del mio lavoro da parte d testate giornalistiche nazionali (ovviamente legate alla Destra). Nella mia condizione di storico precario, il ricatto è chiaro: non avrai mai un incarico di lavoro presso un ente pubblico perché sarai sempre etichettato come uno storico “negazionista”, dunque poco serio e non professionale. È questo forse che fa più male, in prospettiva. Ed è forse anche il motivo per cui molti studiosi evitano di esprimere nettamente le proprie convinzioni su questo tema. Che abbiano o meno un incarico universitario, il rischio di venire emarginati o addirittura di perdere il lavoro esiste.
Come sta reagendo la parte più sana della società a questa temperie violenta, indegna di un consesso civile? Sono sufficienti, tali reazioni, a ristabilire una condizione di sereno confronto?
Mi fa piacere notare che in molti ambiti culturali (dalle università alle scuole, dai centri sociali alle pagine dei principali quotidiani) sia maturata l’idea che si possa e si debba mettere in dubbio quella “versione ufficiale” sostanzialmente falsa degli eventi che sembrava insindacabile. Ora si tratta di capire se la discussione arriverà più in alto, se toccherà la televisione di Stato, la Presidenza della Repubblica, il Governo, insomma i luoghi dove si fa davvero la politica della memoria.
Nel suo libro lei nota che rispetto al tema delle foibe, e in generale sugli avvenimenti del confine orientale, gli studiosi si trovano di fronte ad un bivio di coscienza: o accettano la versione propagandistica, contribuendo a creare un “falso mito”, o s’impegnano nella ricerca, attenendosi alle fonti e agli studi esistenti, rischiando di venire etichettati come “negazionisti”. Secondo la sua esperienza, in quale percentuale sono gli studiosi che si conformano alla verità “ufficiale”? Si tratta per lo più di studiosi incardinati nel mondo accademico?
A differenza dei tanti lavori che ho pubblicato in precedenza, questo libro non porta alcuna tesi particolarmente originale: si limita a riportare in maniera chiara e accessibile i risultati delle ricerche storiche di tanti colleghi negli ultimi 40 anni. Di fatto tutti gli studiosi ne condividono le fonti, le premesse, i fatti; la maggior parte anche l’interpretazione che ne do. Chi interpreta diversamente quei fatti, condivide comunque l’idea che sia proprio la consapevolezza dei fatti a mancare del tutto nel dibattito pubblico. Chi invece nega queste premesse, semplicemente si mette fuori dal dibattito storico. Ma si tratta di pochissimi individui, dentro e fuori l’accademia. Faccio fatica a definire questi individui come “colleghi”: se ignori il contesto, le fonti, i dati di fatto verificabili, le ricerche esistenti, ma ti affidi solo ai documenti di propaganda o alle testimonianze di parte, di fatto non fai il mestiere dello storico.
Dopo la fine della Seconda guerra mondiale si calcola che i tedeschi costretti a fuggire da tutto l’Est e il Sud-Est Europa siano tra i 10 e i 12 milioni, un fenomeno migratorio circa 50 volte più massiccio di quello degli istriano-dalmati, mentre furono almeno un milione i morti per le espulsioni. Eppure, la Germania ha condotto una politica differente dalla nostra, evidenziando nella memoria pubblica i crimini commessi dal regime nazista piuttosto che i presunti torti subiti a fine guerra. Perché invece da noi si è lasciato alle forze della destra nazionalista e neofascista il monopolio della memoria delle foibe, che ha perpetuato l’immagine dei barbari slavo-comunisti scatenati contro la civiltà italiana, ed ha creato, come lei scrive, “un martirologio strettamente legato all’appartenenza ideologica”?
Forse non dovremmo mitizzare troppo il rapporto della Germania con la propria memoria pubblica. È stato difficoltoso anche per loro giungere ad una consapevolezza delle proprie responsabilità storiche, e la vicenda terribile delle violenze subite dai tedeschi in tutto l’Est alla fine della guerra è rimasta anche in quel paese di fatto confinata in ambienti di destra. Il problema da noi è che tale memoria monopolizzata dai neofascisti è diventata memoria nazionale, senza che nel frattempo di raggiungesse una consapevolezza dei crimini commessi dal nostro esercito in nome del fascismo. Ecco, se in Germania ci fosse un giorno del Ricordo, nessuno si sognerebbe mai di celebrare quei milioni di vittime senza ricordare le milioni di vittime prodotte dalla stessa Germania. In Italia non solo si può fare, ma si fa regolarmente ogni anno, celebrando le vittime dei “comunisti”, senza nemmeno ricordare (non dico celebrare…) le vittime dei fascisti (e persino dei nazisti!)
Lei fa notare che esiste uno scarto profondo tra ciò che oggi consideriamo come violenza lecita e ciò che lo era allora, elemento di cui bisogna tener conto nella valutazione storica dei fenomeni, anche se il giudizio “può e deve operare su un diverso piano valoriale”. È chiaramente un terreno molto scivoloso per uno storico: lei come contempera questi diversi piani? A quale linea si attiene per svolgere un ragionamento eticamente giusto e storicamente onesto?
Il mio è un libro di storia e come tale non deve offrire un giudizio morale. Lo storico non è un magistrato né un prete, non deve giudicare o condannare, assolvere o salvare, deve solo raccontare, nella maniera più chiara possibile, i fenomeni che hanno portato ad un dato evento. Dopodiché, siccome si parla di vicende violente, di vittime inermi, è lecito anche dare un’opinione morale di quegli eventi, che deve però restare slegata dall’interpretazione storica che se ne dà.
Peraltro, questa “empatia” verso le vittime pare quasi un obbligo quando si parla di questa storia (guai a non farlo: si viene subito accusati di solidarizzare con i carnefici!), ma non è affatto prevista per altre vicende storiche altrettanto drammatiche e violente. Nei miei libri precedenti sull’occupazione italiana in Jugoslavia nessuno si aspettava che “giudicassi” l’esercito italiano per i suoi crimini, che condannassi “fermamente” quei crimini, che mi mostrassi solidale con le vittime. Quasi come se le vittime civili slave (i bambini lasciati morire di fame ad Arbe, tanto per dire) non meritassero tanto. Su quella storia ci si aspetta un serio, freddo e circostanziato resoconto; per le vittime delle foibe invece è necessaria una dichiarazione di condanna e di empatia.
Dopodiché, io la mia premessa l’ho fatta e la ripeto qui: oggi, nella società pacificata in cui viviamo, ritengo che qualunque uccisione di una vittima inerme sia ingiustificata, ma non posso applicare lo stesso metro di giudizio a chi agiva nel mezzo della peggiore guerra mai combattuta nella storia dell’umanità.
Nel tentativo di creare una “memoria condivisa” e di superare tensioni e frizioni tra Paesi confinanti, anni fa fu costituita una Commissione italo-slovena, che ha operato dal 1993 al 2000, composta da storici dei due Paesi che hanno studiato le delicate vicende che hanno coinvolto i rispettivi popoli nell’arco cronologico 1880-1956. Nel suo studio lei definisce quell’esperimento “encomiabile nella logica della mediazione internazionale e della riconciliazione europea” ma “discutibile da un punto di vista metodologico”. Può chiarire quali sono a suo avviso i difetti metodologici che hanno caratterizzato quelle ricerche?
Oggi si ritiene comunemente impossibile una “memoria condivisa”, specie in territori che hanno vissuto un lungo passato violento come questi. Sarebbe necessario costruire una memoria trans-nazionale, che includa i singoli traumi nazionali, sulla base dell’assunzione di responsabilità di tutti, e soprattutto la valorizzazione della ricerca storica che offra uno strumento di ricostruzione condivisa degli eventi.
Lei pensa, onestamente, che questo Paese riuscirà mai a fare i conti con il suo passato?
In Italia si è scelto fino ad ora di ignorare molti traumi della Seconda guerra mondiale, mettendo l’accento su due stereotipi vittimisti: il bravo soldato italiano costretto a combattere controvoglia, mai violento e in fondo anche lui vittima della guerra; i civili italiani vittime della violenza altrui (nazista nell’immaginario precedente, oggi soprattutto comunista-jugoslava sul confine orientale). Come per molti stereotipi, c’è qualcosa di vero, ma anche enormi buchi nella memoria. È proprio un meccanismo psicologico, per questo io parlo di “elefante nel salotto” quando mi riferisco ai crimini di guerra fascisti: un fatto macroscopico completamente ignorato dalla memoria pubblica.
Un moderno stato democratico dovrebbe però operare diversamente, mettersi sul lettino e cominciare ad ammettere i propri sbagli. È l’unico modo per superare un trauma, ma sembra che ne abbiamo ancora troppa paura. In fondo fa comodo continuare a fare la vittima, anche questo è un meccanismo psicologico molto diffuso. Ma non aiuta a crescere, a diventare maturi e consapevoli. È dura, ma dobbiamo accettarlo: il 10 febbraio non dovrebbe essere un giorno di lutto ma un giorno di festa. Il 10 febbraio 1947 l’Italia ha firmato il trattato di pace, la guerra è finita. L’abbiamo persa e abbiamo dovuto lasciare alcuni territori, peraltro a maggioranza di popolazione non italiana. Ma per fortuna l’abbiamo persa; perché l’avevamo cominciata dalla parte sbagliata. Se l’avessimo vinta, ora l’Europa sarebbe dominata dai nazisti e le stesse terre del confine orientale (e certamente anche Trieste) sarebbero in Germania. Se partiamo da qui, tutto il resto diventa accettabile.