Pale Blue dot è la prima fotografia della Terra scattata a sei miliardi di chilometri di distanza dalla sonda Voyager 1. Carl Sagan ci ha scritto sopra un libro, in pratica la Terra è solo un puntino azzurro su uno sfondo scuro che fai fatica a distinguere. E forse a cogliere il punto dietro a quel punto: “Se da un lato costituisce l’antecedente della disaffezione al pianeta Terra (acosmismo), dall’altro può, forse per la prima volta, restituirci una visione d’assieme davvero complessiva dell’azione capitalistica e del nostro futuro nel cosmo”.
C’era una volta la Prima Era Spaziale, incubata nell’immaginario cromato degli anni Venti e Trenta del Novecento, messa in moto dalla lugubre Vergeltungswaffe 2 di Von Braun, culminata nel programma Apollo (1961-1975) e nella passeggiata lunare di Neil Armstrong in piena guerra fredda. La Seconda Era (1981 – 1997), quella dello Space Shuttle e della stazione sovietica Mir, mantenne un profilo più basso, fino quasi a scomparire dai nostri radar. La nuova corsa spaziale, la terza, è quella della space economy, di Elon Musk e Jeff Bezos, delle startup di Silicon Valley (ma anche di EAU, Giappone o Israele) che competono (e collaborano in outsourcing) con la Nasa e le altre agenzie nazionali, compresa quella cinese, finora protagoniste incontrastate della narrazione spaziale. Il Newspace è infatti un catalizzatore di capitale e di risorse umane, sul modello della net economy, ma anche un generatore di hype che si propaga grazie a nuove ondate di accelerazionismo e transumanisti.
Tutto, secondo Cobol Pongide, musicista, studioso e animatore della scena ufociclista italiana, a partire da MIR (Men In Red) vent’anni anni fa, inizierebbe nel 1997 con la Mars Pathfinder, la prima missione a inviare un rover teleguidato nello spazio, ma, soprattutto, a riaprire dopo vent’anni anni, la corsa verso il Pianeta rosso. E a rilanciarla in ottica low cost, per dimostrare di poter competere nel profitto. Marte infatti sta al Newspace come il Nuovo Mondo stava al Colonialismo 1.0 degli europei, è l’Eldorado e il simbolo di un capitalismo post-globale che sogna esopianeti da colonizzare, ma che, nel breve, dovrà estrarre profitti dai metalli degli asteroidi, da piattaforme lunari (un obiettivo strategico transitato tale e quale da G.W. Bush a Obama a Trump), dai servizi a terzi. La faglia del conflitto si estende però già qui e adesso, il corpo e l’ambiente rivelano i marcatori della biopolitica spaziale che si applicherebbe già a un pianeta – la Terra, non Marte – sempre meno vivibile. Da un lato, quindi, il diritto all’autodeterminazione degli umanoidi è opposto all’adattamento e alla specializzazione tecnica della specie, dall’altro la terraformazione “introversa”, cioè rivolta verso l’atmosfera terrestre, si confronta con l’hacking delle tecnologie dell’Antropocene.
Da notare che, secondo Cobol Pongide, attraverso la fantascienza mainstream e il filone distopico, in film come Titan, Elysium o il reboot di Total Recall, si trasmetterebbe oggi la matrice di un futuro non negoziabile e di un “realismo fantascientifico” tale solo perché validato ex ante dall’esistente. La sua possibile costruzione politica, tipica della fantascienza classica (approdata, via James G. Ballard, al cinismo hardboiled dei cyberpunk), è oggi espulsa dalla fiction mainstream distopica.
Alla fine Marte oltre Marte ha il grosso pregio di guardare al futuro da una prospettiva radicale, non esclusivamente “terrestre”, senza mai porre nella globalizzazione, nella natura o nella tecnologia il termine ultimo della nostra presenza nel cosmo.