Non è raro per un lettore accostarsi a un libro di poesia con una domanda che lo tormenta, sia che si tratti di un quesito legato alla contingenza sia che si configuri invece come l’interrogativo insoluto della sua vita. Chiunque si avvicini all’opera della statunitense Louise Glück, Premio Nobel per la Letteratura 2020, non solo non troverà una soluzione pacificante ai suoi enigmi, ma riemergerà dalla lettura con ulteriori dilemmi da portare con sé.
Al cospetto de L’iris selvatico (1992) e di Averno (2006) – le due opere poetiche dell’autrice, recentemente ripubblicate da il Saggiatore con la meritevole traduzione di Massimo Bacigalupo –, il lettore si sente come Psiche, trepidante con la sua lanterna, in procinto di scoprire l’identità di Amore (immagine, questa, mutuata dal saggio di Glück intitolato Contro la sincerità). Troverà, il fruitore, una scrittura asciutta, scarna, accessibile, pregna di echi e rimandi al quotidiano; sarà subito chiamato, tuttavia, a uno slancio quasi metafisico per cogliere gli alti significati metaforici del testo.
La prima delle due raccolte, che valse alla scrittrice il Premio Pulitzer, si configura come una silloge di monologhi ambientati in un giardino (si noti la ricezione dell’insegnamento dickinsoniano): in un microcosmo tutt’altro che edenico, piante e fiori prendono la parola e cantano la metamorfosi, la caducità, la parentesi di effimera bellezza della bella stagione della Nuova Inghilterra; poi è la voce umana ad accordarsi a questa melodia fatta di solitudini, vulnerabilità, desideri; lungi dall’essere sordo ai richiami del Creato, anche Dio si manifesta e risponde con piglio risoluto e indomito. La forza incontestabile de L’iris selvatico risiede, da un lato, nella felice intuizione con cui la struttura formale è allestita e, dall’altro, nella sensibilità con la quale viene prestato ascolto al sentire dell’altro.
La luce che permea il giardino del Vermont nella primavera della rinascita cambia radicalmente in Averno e avverte: “non sarai risparmiata”. Realtà e mito si intrecciano in questa singolare e intensa discesa agli Inferi: traghettatrice d’eccezione è l’errante Persefone, creatura della soglia, abitatrice di due mondi, signora del limite. Nella scrittura di Glück emergono ferite e traumi, si percepisce l’elaborazione matura della psicanalisi, il conflitto della sua esperienza biografica si ricompone nello slancio verticale della pagina. Mai pedissequamente legata alla tradizione, la scrittrice illumina con il suo dire versioni laterali e poco frequentate delle favole antiche, contesta, mette in discussione, accende la scintilla del dubbio. Anche in questo consiste quella mancanza di autoindulgenza cui fanno riferimento Massimo Bacigalupo e José Vicente Quirante Rives nelle loro dense postfazioni – una caratteristica che distingue la poetica di Glück rispetto a certa letteratura statunitense contemporanea.
Erede della visionarietà di Blake e della obliqua verità di Dickinson, la poetessa premio Nobel consegna al lettore i simboli dai quali attinge la parola viva, lo strumento conoscitivo indispensabile per esplorare se stessi, sciogliere i propri nodi o, almeno, con coraggio, riconoscerli. Quello di Glück è un dialogo incessante con l’Oltre che, nell’attimo stesso in cui genera turbamento, suscita possibilità interpretative sempre nuove, orizzonti imprevisti per chi torna dall’oblio.