Un apprendistato poetico: Rilke a un giovane poeta

R.M. Rilke, F.X. Kappus, Lettere a un giovane poeta, il Saggiatore, tr. Silvia Albesano, pp. 176, euro 19,00 stampa, euro 8,99 epub

“I versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si hanno già presto), sono esperienze. Per un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose […]. Solo quando (i ricordi, ndr) divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso”. Tra gli altri, annota anche questi pensieri, Rilke, ne I quaderni di Malte Laurids Brigge, diario-romanzo dai chiari richiami autobiografici, composto tra il 1904 e il 1910 (la traduzione qui riportata è di Furio Jesi, ed. Garzanti).

Agli stessi anni circa (1903-1908) risale la corrispondenza che il poeta praghese intreccia con il giovane Kappus, allievo ventenne dell’Accademia militare frequentata in passato anche da Rilke. Le dieci missive di quest’ultimo vengono pubblicate postume, nel 1929, e diventano ben presto un classico, in quanto manifesto della poetica dell’autore e rappresentazione della sua visione del mondo e della vita. Il Saggiatore, con la curatela di Erich Unglaub e la prefazione di Valerio Magrelli, ne propone ora, per la prima volta in Italia, l’edizione completa, comprensiva cioè delle repliche di Kappus: in questo dialogo tra mentore e discepolo, riacquistano così importanza le domande, le incertezze, i tentennamenti della gioventù che ha l’audacia di interrogare l’esperienza su questioni concrete e delicate, che riguardano non solo l’arte, ma anche i dilemmi insoluti dello stare al mondo.

Appena ventisettenne, ma già poeta riconosciuto, Rilke qui abbraccia volentieri il ruolo di guida ed enuclea alcuni temi che diverranno in seguito centrali nel Malte: la meditazione sulla solitudine come condizione essenziale per il nutrimento dell’interiorità è, per esempio, il filo rosso che attraversa queste pagine e costituisce la vera sostanza del lascito del poeta; un altro caposaldo dell’eredità rilkiana è poi senz’altro l’esortazione alla pazienza, un ritmo nuovo cui accordare il proprio passo, una “silenziosa e indisturbata maturazione”, una lentezza finora impensabile per vedere finalmente le cose del mondo con inedita attenzione. Con queste premesse, non si può scrivere per rispondere semplicemente a un’urgenza corriva, ma lo si deve fare esclusivamente per obbedire a una stringente necessità, per dir di sì alla potenza ineluttabile della dea greca Ananke che impone una missione assoluta.

A tutti costoro, il poeta suggerisce di indugiare sulle domande, piuttosto che rincorrere spasmodicamente risposte frettolose e solo apparentemente risolutive, perché “Tutto è gestazione e parto”. Maestro inattuale per questa società che appiattisce alto e basso in facili rassicurazioni che tendono all’omologazione, Rilke agita le nostre inquietudini, chiama per nome l’amore, la morte, il terrore, l’ansia di Dio, e ci chiede di darci tempo, il tempo necessario per comprendere. Resta da domandarci se ne saremo capaci, oggi che ci illudiamo di avere qualsiasi soluzione a portata di clic; probabilmente riuscirà ad afferrare la verità solo chi saprà davvero immergersi dentro di sé, nell’ora più quieta della notte, e rispondere così all’ineludibile chiamata della Poesia.