Jacek Hugo-Bader, I diari della Kolyma, tr. Marco Vanchetti, Keller editore, pp. 352, euro 18,00 stampa
2.000 chilometri di autostrada. 2.000 e più pensieri nel freddo glaciale di quella Russia talmente lontana dalla nostra latitudine e dalla nostra visione che l’altra faccia della Luna appare quasi più confinante. Il viaggio di questo passeggero transiberiano, attraverso confini che svaniscono nel nulla, riporta indietro un reportage da fine del mondo, da fine di tutto, comprese storie di cani e di orsi, di milioni d’internati dal Gulag, e di milioni di vittime. Gente cacciata, che non si voleva vedere mai più, gettata dentro le miniere d’oro per lavorare e infine essere sterminata. Più di un milione e duecentomila morti in Kolyma.
Una parola per tutte: Zaboj. In russo significa sia cava che mattatoio. Kolyma, il cuore d’oro della Russia. I cani sono laika, razza forte, mordace, resistente a tutto e capace di tener testa a interi branchi di orsi. I laika sono quanto di meglio può restare nei pressi dell’uomo, duro e rapace anch’esso, in quei territori di ghiaccio e di vette ancora inesplorate. Jacek Hugo-Bader scrive un diario memorabile, raccoglie racconti mentre viaggia nella badland russa che non è soltanto un inciampo nella nostra mente postuma ai cataclismi umani lasciati dal Novecento.
Le anime di Solženicyn e Šalamov osservano a picco come satelliti stazionari, ci sono ma come da un tempo (ancora amministrato dal Gulag della mente) anteriore, perenne macchia di petrolio o nube di polvere radioattiva. Incontrando i discendenti dei prigionieri di cui si fece scempio in epoca stalinista, si assiste a ogni genere di storia, a eventi mai immaginati, neppure da Tolkien. Lo stesso Hugo-Bader giunto al termine del viaggio annota che entrando in Jacuzia gli è parso di essere giunto nella terra di Sauron, del Signore degli Anelli e di Mordor.
Di notte non è difficile sognare i brutti musi dei salmoni, quando riempiono al colmo i fiumi, ogni quattro anni durante le punte di migrazione. Di giorno, a Magadan, all’estremo oriente russo, si vedono belle ragazze imbellettate in procinto di sposarsi proprio dov’erano i lager. Fra pescatori e controlli di polizia, donne in sgargiante vestito festivo ripuliscono le strade dallo sterco di mucca. E qui tutti conoscono il segreto per preparare il caviale più buono del mondo: nove minuti esatti in salamoia, non uno di più non uno di meno. Le anatre sbudellate seccano al sole, in attesa del festeggiamento per la fine della stagione di pesca al salmone. Imprecazioni mostruose e vodka (cinquemila tipi registrati, prezzo base fissato per legge), gioco di carte misterioso tra funzionari di polizia e misteri ancora più profondi.
I racconti impazzano. Non c’è mai fine a un racconto, in quei luoghi. Mentre nessuno paga per poter pescare si favoleggia di un meteorite da un milione di dollari, caduto dal cielo e ora tenuto in casa come un ostaggio. Ma forse non è vero niente. Hugo-Bader è finito in un posto dove il collegamento a internet costa trecento rubli (7 euro) all’ora, il tutto con una lentezza micidiale. Impossibile inviare la relazione. E un’orda di voraci virus russi si mangiano il computer. Difficile immaginarsi cinquantacinque bambini morti ogni cento nati, durante la guerra. Così dice babula (nonna) Tania, classe 1917, mentre prega Dio di morire. Poco da ridere a Magadan, nel tempo ibernato e cupo che altrove in Russia probabilmente non esiste più.
Ma Hugo-Bader si accorge che in città resiste ancora un busto in bronzo di Eduard Berzin, il dio della Kolyma, direttore dei campi concentrazionari all’inizio degli anni ’30. All’epoca del viaggio (2010, circa) evidentemente non si erano ancora ripresi dalla caduta dell’impero sovietico. Gli incontri si srotolano, in questo lungo reportage di 2.000 chilometri e 350 pagine, dentro alle rudezze dei luoghi e della popolazione, alle crudeltà che spesso vengono smorzate dall’ironia immancabile nello sguardo di Jacek, per fortuna non ancora abbastanza “russizzato”, come annota divertito.
I discendenti dei prigionieri hanno una gran voglia di raccontare (spesso quel che interessa a loro) a questo viaggiatore polacco curioso e ispirato. Scassinatori giovani e donne innamorate, vagabondi che si fanno in quattro per sbarcare il lunario avendo alle spalle la perenne ombra pesante e cupa della guerra e degli internamenti, volontà di parlare e costrizioni al silenzio, stupri collettivi (definiti “corali”), documenti della polizia segreta riemersi dal fondo dei cassetti, la storia di chi (pare un certo Kipreev che aveva lavorato ai misteri della reazione atomica) riuscì a inventare un metodo per la rigenerazione dei milioni di lampadine necessarie a illuminare campi e baracche.
Si scopre che il primo europeo a passare per quei territori sconfinati fu un polacco, partecipante all’insurrezione del 1863 e spedito in Siberia. Onorato poi fino a dedicargli il nome di catene montuose e vette che, la sorte non guarda in faccia nessuno, sovrastano i campi e le miniere d’oro diventate la tomba per milioni di persone. Senza contare le vittime (seppellite proprio sotto il manto stradale, nei paraggi non esiste alcun cimitero) lasciate indietro dalla costruzione dei 2.000 chilometri della strada della Kolyma.
Ora a Jacek gli incontri lungo la Strada (con la s maiuscola) piacciono. Ma ci sono meno turisti che sull’Everest. E i camion sono rozzi ma resistenti (marca Kamaz, detti comunemente “fangomobili”), all’occorrenza viaggerebbero anche sulla luna dove non c’è atmosfera. La Jacuzia appare all’impavido reporter come terra misteriosa, di buchi temporali e di buchi nel terreno, interamente appoggiata sul permafrost, e abitata da magie spiriti guaritori sciamani e gente stramba. A ogni tappa del percorso le storie si ribaltano nell’attualità con la stessa selvatichezza selvaggia e diffidente dei cani laika. E ci accorgiamo come questa eredità, raccolta da Hugo-Bader, in un modo o nell’altro ci appartenga. Raggiunti e presi in contropiede dobbiamo lavorare ancora a lungo perché si possa capire come la nostra decadenza purtroppo abbia una primaria (e non schivabile) origine.