Felice titolo, Saffo ritrovata. Felice per chi, già conoscendola, può ancora procedere nell’incandescenza tenace, vitalistica, delle poesie e dei frammenti a noi giunti della nobile poetessa di Lesbo, che dal Settimo secolo a. C. sublima i nostri sogni e i nostri brividi. Ugo Pontiggia (ancora una volta tramite la sua arte interpretativa) legge Carmina et Fragmenta seguendo la giusta interpretazione del termine Hagnos, “profonda riverenza o il religioso timore che il sacro ispira”. Saffo non casta, dunque, ma “divina” quanto le sue poesie, e arricchita della sua omosessualità. Così investita di doppia qualità, splendida (“veneranda”) intermediaria tra Afrodite e le fanciulle, Saffo è in pieno la poetessa della memoria mitica e dell’amore. Trarre siffatte letture dall’introduzione di Pontiggia è esperienza da tramandare evitando false timidezze: bisogna affezionarsi a queste pagine, così come alla confezione del libro, copertina compresa (la collana “Coliseum”, sigla benemerita è condotta da Nanni Cagnone e Marco Albertazzi, quest’ultimo anche editore).
Saffo dunque ci consegna ancora, dalle pagine del libro, la propria testimonianza di bellezza, fortemente legata all’esperienza mitica del piacere. La felicità emerge come tratto distintivo, unita alla consapevolezza del sapere, e rese distinguibili dall’uso di vari verbi e espressioni. La ricchezza di linguaggio, nota Pontiggia, nulla ha a che fare con quell’idealismo crociano di certe interpretazioni per fortuna non più assimilabili. Nel mondo femminile di Saffo la parola abra indica il privilegio indossato da coloro che sono amiche, compagne, nel pieno di delicati legami. Ricchissime le spiegazioni che leggiamo, poco prima di addolcirsi con i versi: quanto in Omero i vocaboli indicano trafitture, penetrazioni, ferimenti, con armi dentro i corpi del nemico, tanto in Saffo la leggerezza si esprime accettando il mondo e i suoi misteri, e l’impeto della forza, ma avvicinandosi al mondo degli dèi. Non debolezza, ma levità del corpo femminile: apalos, abros, nel linguaggio riferito ai corpi delle ragazze.
E poi, direttamente dal tiaso, abbondante di arti, i versi in greco e in traduzione, che Saffo ha scritto e che a noi sono giunti in ampi frammenti, pur sempre minima parte di una vasta opera compositiva. Bisogna abbandonare gli impeti moderni, le smanie che dileggiano, i malevoli luoghi abitati (comprese le contemporanee quotazioni virali), per inondarsi di una fedeltà accurata, poiché profittevole è questa versione, e capace di occultare le manchevolezze di conoscenza linguistica. La distanza fra noi e il mondo antico è contratta, è una bella sfida allearsi alla poesia di Saffo che tanto ha agito nel nostro mondo psichico. E che si vorrebbe ancora agisse, e più, nel mondo poetico a cui purtroppo, disgraziatamente, ci siamo sottratti da molto tempo. Tanto che gli dèi, stufi dell’umanità egemone di una terra meravigliosa, sono migrati altrove, chissà dove. Da lì in poi, il contagio risiede solo nella nostra mente. E non si tratta di un comunissimo raffreddore. Potrebbero bastare brevi versi irradianti come Selene e Pleiades tramontate, / notte a mezzo, / tempo scorre. / Sono sola a rendere attraversabile il labirinto che abbiamo costruito sulle macerie? Compito assoluto, forse troppo per chi più non si impressiona alle tematiche dell’eros.