Il libro è una meticolosa biografia di Bruce Lee, il più cinetico e iconico fighter dell’epoca moderna, scomparso mezzo secolo fa all’apice del successo, con un interruptus alla James Dean, all’età di 32 anni, uno meno di Cristo, Arthur Rimbaud e John Belushi. Esaurita la breve stagione dei cloni posticci e delle frattaglie cinematografiche, immediatamente successiva alla sua scomparsa (dovuta, pare, a un fatale colpo di calore), la sua orma mediatica arriva ai giorni nostri non solo attraverso le coreografie di Matrix, gli omaggi cinephile di Kill Bill e, praticamente, qualsiasi gioco “picchiaduro” o film d’azione degli ultimi decenni. La parabola di Bruce Lee suona infatti ancora fresca e avvincente anche per un altro motivo: perché profondamente fluida, ibrida, contaminata.
Fluida perché a sintetizzare la “cura del sé” è in questo caso proprio l’esercizio del corpo, la sua estensione fisica al di là di qualsiasi stile o incrostazione identitaria. La citazione d’obbligo qui è ovviamente il celebre “Be like water my friend. Empty your mind. Be formless” che Lee butta lì in una famosa intervista del ’71. Ma basterebbe anche “the style of no style”. Michele Martino sottolinea come la sua prosa spesso “lirica” e intrisa di taoismo, attinga dai repertori di Jiddu Krishnamurti e Alan Watts, senza mai perdere di vista l’effetto e il valore performativo della parola, il suo rimbalzo al di sopra del rumore mediatico. Ma la parabola di Lee è anche “ibrida” perché la pratica del cross-training a cui si sottopone, che lo spinge a confrontarsi con qualsiasi disciplina utile – judo, karate e persino la scherma – o a rivedere per ore la danza ipnotica di Muhamed Alì sul ring, non è solo anti-tradizionale ma sincretica. Lee, che in un primo tempo si richiama al kung fu delle origini, scevro dal folklore e dalle ingombranti coreografie del cinema di Hong Kong, diventa nella maturità il teorico e l’agonista del jeet kune do (o JKD, letteralmente “la via del colpo che intercetta”), il combattimento ibrido e ravvicinato di strada. Contaminata, infine, lo è tutta la vita dell’atleta attore cino-americano, divisa tra la California e Hong Kong, Oriente e Occidente: è un ponte tra due culture inconciliabili, diffidenti ma seduttivamente allettate, che si incarna in un corpo spavaldamente perfetto, costruito per quello che verrà ricordato come il primo sbarco cinese nell’immaginario cinematografico mondiale. Fuori metafora Enter the Dragon (I tre dell’operazione drago), nel 1973 è il primo film (a basso costo) di Warner e di Hollywood con un protagonista dai tratti inequivocabilmente asiatici, alto un metro e settanta. Gli fanno da spalla adesso un karateka afroamericano (Jim Kelly) e un caratterista italo-americano (John Saxon, al secolo Carmine Orrico) ma si tratta lo stesso attore a cui, solo l’anno prima, è stato preferito David Carradine per la parte di un monaco cinese nel Far West, protagonista della serie “Kung Fu”. Il film ad oggi, costato meno di un milione di dollari, ne ha incassati 400.
Come ogni biografia anche Bruce Lee. L’avventura del Piccolo Drago prova a far coincidere spazio e tempo secondo linee narrativamente comprensibili al lettore. Così la vita di Bruce Lee, nato con passaporto americano da una famiglia benestante di Hong Kong, con permesso di immigrazione e di soggiorno temporaneo negli Usa, può essere divisa grosso modo in tre parti. La prima è la giovinezza turbolenta nella colonia inglese, tra le lezioni di IP Man – il mitologico e anziano maestro di Wing Chun, ben poco somigliante alla aitante versione fornita da Donnie Yen nel franchising a lui dedicato – e una improbabile carriera di bambino prodigio sui set artigianali della città stato. La seconda inizia con la fuga in America in cerca di fortuna – a Seattle, a Oakland e poi a Los Angeles – e con l’intento di fondare attorno al JKD un movimento di palestre e di fighters. Un tentativo mai coronato da grande fortuna ma grazie al quale, oltre a consolidare il suo “rat pack”, una rete di allievi e amici che gli tornerà utile in futuro, si fa un nome, tra un’esibizione e l’altra (Lee non partecipa ai tornei ufficiali), anche come “maestro dei divi” (tra i suoi allievi Roman Polański, Blake Edward, l’amico James Coburn, l’idolo-rivale Steve McQueen).
È a questo punto che Bruce Lee “scopre” veramente il cinema. La brace cova dentro ad alcune particine in serie e film americani (Ironside, 1967; Longstreet , 1969; Marlowe, 1969) ma la scintilla divampa, come noto, solo con la sua interpretazione di Kato, il sidekick dai calci rotanti di Green Hornet (1967), la serie televisiva che tenta inutilmente di bissare il successo pop di Batman. La popolarità di Lee ben presto oscura quella del protagonista, un bolso e impacciato Van Williams. Tra questo e il film postumo Game of Death (1973, in italiano L’ultimo combattimento di Chen), realizzato dall’ex socio Raymond Chow con molte controfigure (ma nei pochi minuti di girato originale Lee sfoggia la mitica tuta gialla a bande nere) e la regia del fidato Robert Clouse, lo stesso che Bruce Lee ha voluto per Enter The Dragon, c’è tutta la (breve) parabola cinematografica di Lee. Quello che ne resta è oggi sicuramente la sua cura ossessiva per le coreografie dei combattimenti, sempre più fluide e immaginifiche. In mezzo ovviamente c’è la “trilogia di Hong Kong”, il corpus che consacrerà a Est il successo di Bruce Lee, compresa la bislacca puntata romana e il mitico combattimento all’ultimo sangue con Chuck Norris in un Colosseo ricostruito in studio dagli artigianelli cinesi. E che il mondo non asiatico conoscerà soltanto dopo la sua morte.