You could be the apple of my eye
But you, you, you upset the apple cart
Non c’è niente di originale nel diventare vedova. Le scansioni del lutto sono implacabili e non puoi saltarne nessuna: allucinazione, rabbia, risentimento, aggressività, confusione, dolore, senso di colpa, vergogna, rimpianto, rimanere inchiodati al momento della fine, depressione. Tutte fasi miscelate, vissute, e subite, in successioni confuse, con ritorni improvvisi e posture diverse. Come è difficile essere vedova, non solo doloroso, ma anche difficile. Se poi sei stata la moglie di uno scrittore che è posseduto da milioni di lettori compulsivi e ossessivi, sopravvivere alla catastrofe strappata al suo privato è un’impresa disperante. Non resta che chiedersi: «A chi posso rendermi invisibile? A chi posso rendermi magicamente visibile?» L’artista Karen Green ha avuto la ventura di avere per marito David Foster Wallace, che l’ha lasciata nel modo più brutale, impiccandosi – come tutti sanno – 10 anni fa.
Eppure, eppure… Karen Green, del lutto, sembra privilegiare una creativa ribellione al ruolo assegnatole di «vedova professionista». Ne esce questo libro pudico ma anche feroce che cerca di riorientarsi nel mondo che improvvisamente ha perso ogni leggibilità. Lo fa con la scrittura e con piccolissime operine della grandezza di francobolli accostati, di cancellature, di elenchi di parole e colori. «Un tempo organizzavo le cose inimmaginabili a seconda del colore, ma l’inimmaginabile è adesso e la gente offre sogni in bianco e nero per consolazione». Karen Green non ci sta. Rinomina e dipinge in modo poetico e malinconico il paesaggio straniante del suo insopportabile dolore che diventa così: color crema da Barbie, tubo azzurro, Orange county, pillole blu, luce verde sedano, travi cremosi, camicia bianca immacolata, cane marrone, porta rossa, letto color squalo, sfumatura di colore dei capezzoli di mio marito, pesciolini bianchi, braccia di un colore irrazionale, casa color sabbia, albero arancio scuro, mare brodo del colore del sangue secco, pillole googlate di colori diversi, ponte rosso, merle nome di uccello e di colore, il rosa nuovo colore che vedo, giallo di Napoli; un paesaggio che si colora delle tonalità malinconiche dei quadri di Bonnard. Ma naturalmente è solo «Un nuovo sintomo a forma di pigna. Pigna: pinecone. Pine: struggersi dal desiderio o dal dolore. Cone: uno dei fotorecettori presenti sulla retina oculare che rendono visibili la luce del giorno e i colori».
I colori di Bonnard, lo sforzo sovrumano di essere infedele («Il dottore dice che se fossi stato cosi tra virgolette perfetto per me, probabilmente saresti ancora qui, non per offenderla eh»), per Karen Green, il duro tirocinio per divenire una «vecchia vedovaccia» come la chiama con coraggio il suo affettuoso figlio, passa anche attraverso Billie Holiday.
«C’è qualcosa che non va nello spazio vuoto fra le scarpe dondolanti e il terreno. C’è una distanza la cui misura non tornerà mai, un movimento nella sua forma che non è fiato, non è ossigeno». DFW è uno «strano frutto» che penzola, come il corpo nero linciato e appeso a un albero di Strange fruit cantata da Billie Holiday: due frutti avvelenati della malattia e del razzismo.
L’«infedeltà» allo scrittore si manifesta anche nell’incapacità – voluta o impossibile – della Green a «riconoscere l’arco narrativo segreto del dizionario» in cui il marito era maestro. Scrive che tutti e due erano d’accordo nel ritenere la parola mutandine una «orrenda parola da Updike», ma – forse dispettosamente – dissemina il testo di parole ed espressioni che avrebbero fatto inorridire il marito: zebedei, incoraggiare con le palle degli occhi, l’autostrada ha un’aria da tegame di popcorn…
Non acquietata, in lotta con un marito che non la lascia andare, che lei non può lasciar andare, che non riesce a perdonare (la Green prima di questo libro aveva costruito una installazione, una sorta di «macchina del perdono»: la gente scriveva la cosa che avrebbe voluto perdonare o farsi perdonare e l’introduceva nella macchina che la succhiava e la risputava dall’altra parte triturata ma non l’aveva personalmente usata) nell’ultima pagina de Il ramo spezzato scrive arresa: «io è deperibile, non posso è deperibile, aiutarti è deperibile, le radici sono deperibili. Questa cosa non la so concludere».