Devo fare ammenda. Da qualche tempo a questa parte ho preso a riconsiderare l’esperienza della Scrittura Creativa, che pure io stesso ho insegnato per quasi vent’anni in scuole serali. Devo ammettere che l’ambiente dell’editoria è cambiato, grazie a essa: quando mi capita di fare da giurato in concorsi letterari non mi vedo più costretto a scartare diciannove testi su venti perché l’autore neppure sa come si scrive un incipit, compone dialoghi che sono collezioni di luoghi comuni, o ancora infarcisce la narrazione di infodump spalmati con la cazzuola. Oggi la percentuale di testi validi è sensibilmente aumentata. Significa forse che chi ambisce a scrivere ha finalmente raggiunto una consapevolezza di cosa rappresenti la narrativa? Niente affatto, perché mi sembra che siamo caduti nell’estremo opposto: molti lettori giudicano ciò che leggono in base a quanto imparato nei corsi, o su qualche manuale. E di conseguenza se il “punto-di-vista” non è rigoroso ma slitta in qualche passaggio nel “narratore onnisciente”, oppure se i personaggi non sono caratterizzati come si deve – per esempio con un passato di sofferenza che li ha fatti “maturare” – o ancora se gli eventi non sono spiegati a sufficienza senza lasciare nulla di “appeso”, allora il lettore è convinto che il libro sia in qualche modo “sbagliato”.
Temo che la colpa sia nostra: non siamo riusciti a spiegare che la Scrittura Creativa è una scorciatoia, un punto di partenza e non un arrivo, un mezzo e non un fine. È per questa ragione che quando leggo un libro che sfugge a questi diktat estetici, e a un autore che pur dimostrando di conoscere le regole si permette di infrangerle, allora sento alleviarsi il senso di colpa.
I cani della pioggia di Tullio Avoledo è uno di questi libri. Inizia nel bel mezzo dell’azione, promettendo di tornare più avanti a raccontare l’antefatto, ma mantiene solo parzialmente e, soprattutto, senza lunghi flashback a lardellare la trama. Del passato dei personaggi principali racconta poco, anche perché in questo romanzo Avoledo fa incontrare i protagonisti dei tre precedenti libri che ha dato alle stampe: Marco Ferrari, ex poliziotto diventato scrittore di gialli in Germania (che abbiamo conosciuto in Come navi nella notte, 2021) e Sergio Stokar, pure lui con un passato nella polizia di stato (visto all’opera in due noir, Nero come la notte, 2020, e Non è mai notte quando muori, 2022). Certo, dai dialoghi tra i due emergono fatti raccontati nei libri precedenti, ma non danno fastidio e sono funzionali alla costruzione del carattere dei personaggi. E i protagonisti (che sollievo!) non sono caratterizzati in maniera cheap, con il solito trauma nel passato che li ha trasformati in duri dal cuore tenero, pronti a sciogliersi per un bambino in pericolo o per un torto da raddrizzare. Interessante per esempio è la dicotomia Ferrari/Stokar, con le intemperanze del secondo (che per me è un personaggio veramente odioso) mitigate dalla morale del primo: come una scissione nella percezione del lettore che in questo modo non è costretto a disapprovare gli atti dell’uno, perché gli basta immedesimarsi nell’altro.
La trama: lo scrittore Marco Ferrari arriva fortunosamente in Ucraina nei primi tempi della guerra d’aggressione russa; il suo scopo è rintracciare la sua compagna Magda, fotografa tedesca praticamente prigioniera di una banda di mercenari al comando di un tagliagole serbo che si barcamena tra i due eserciti. Ad aiutarlo nell’impresa, che per lui sarebbe pressoché impossibile, lo attende Stokar, uomo d’azione che lavora per un parente poco raccomandabile di Ferrari. Stokar è il classico duro al quale ci aggrapperemmo tutti in una situazione di pericolo, tanto più se vogliamo uscire vivi da una situazione in cui il fonte si sposta avanti e indietro a seconda delle vicissitudini belliche: un ammiratore del nazismo, per sua stessa ammissione, che però ha mitigato alcune posizioni sulla base dell’esperienza personale; comunque, un uomo che conosce le armi e non ha remore a uccidere, se necessario (e talvolta anche se non lo è).
È Stokar l’autentico protagonista, sebbene il personaggio “punto-di-vista” sia Ferrari, ed è infatti nel tentativo di immedesimarsi in Stokar che arriva la giusta domanda: fino a che punto è lecito commettere il male per allontanare da noi un male più grande, o per allontanarlo da chi ci è caro, oppure da chi ci ha ingaggiato? Violando altre regole, ci sono personaggi che potrebbero ambire al titolo di antagonista, che però scompaiono inghiottiti nella trama – esattamente come accade nella vita vera – perché in ultima analisi il conflitto narrativo profondo non è tra il protagonista e il nemico, o il suo destino, bensì tra Stokar e Ferrari, tra umanità e fatalità, tra necessità e capacità, tra ordine morale e disordine pratico; a ogni modo, non tra Bene e Male, che nella buona letteratura sono categorie insignificanti, perché appartengono a una semplificazione manichea inutile nell’arte.