Truman Capote, “giornalista letterario”, affabulatore su carta stampata e gite malinconiche fra ristoranti gourmet, cene mondane e tea-dance snob, alimentando gossip proustiani e vere e proprie mandate al diavolo (funeste per lui) da parte del jet set internazionale. La sua fine è nota. Però quando nel 1958 uscì Colazione da Tiffany, romanzo breve accompagnato da tre racconti fra cui A Christmas Memory, la sua fama in ascesa non gli evitò la stravolgente sceneggiatura organizzata dalla Paramount per il film diretto tre anni dopo da Blake Edwards.
Capote non inventa (quasi) nulla in questo racconto: la sua infanzia in Alabama, nel sud degli States in compagnia dell’amatissima Harper Lee (futura scrittrice di Il buio oltre la siepe), è filtrata dal Dickens universalmente natalizio.
Il ragazzino Buddy è legato in intimità giocosa – qua e là addizionata non casualmente da Capote di lievi sprazzi noir – con l’anziana e mattacchiona Sook, cugina il cui naso ricorda quello di Lincoln, gran confezionatrice di panfrutti da donare nei giorni di Natale ai personaggi più disparati a partire dal presidente Roosevelt. Gli altri sono improbabili missionari del Borneo, persone incontrate per caso e mai conosciute, e svariati affetti lontani. Una trentina di torte preparate acquistando con pochi spiccioli il necessario (farina, uova, canditi, noci), fra cui una buona dose di whisky presso il gigantesco indiano Haha Jones, produttore clandestino con guance segnate da cicatrici. Completa la compagnia l’immancabile cagnetto, il terrier Queenie che resiste ai serpenti a sonagli e attende pure lui il suo dono natalizio, un succoso osso di manzo da rosicchiare.
Buddy e Sook credono ai fantasmi, che sembrano inequivocabilmente rappresentati da Capote nelle figure dei parenti brontoloni abitanti nella stessa casa ma la cui presenza “neanche si sente troppo”. Dopo la confezione dei dolci, e spediti via posta come spesso accadeva nella profonda provincia americana (i baby boomers non dimenticano le sdolcinate commedie hollywoodiane viste nei cinemini di seconda visione e i corti Walt Disney Production), i due si avventurano alla ricerca dell’albero di Natale più bello, nell’oceano della foresta di pini piena di bacche cremisi, agrifogli e odori pungenti. Li aspettano, sotto lo sguardo incuriosito di Queenie, gli addobbi che ogni anno emergono dal baule in soffitta nei loro incarti insieme a rotoli di fili di lamè dorati e luci d’incerta condizione e forse pericolose.
Le colorate, intime, illustrazioni di Beth Peck accompagnano ogni scena della storia raccontata dallo scrittore, affascinato lui stesso dai ricordi e dalle figure dei due Costruttori di aquiloni che ogni volta, a ogni Natale, si regalano a vicenda sino alla fine del tempo concesso. Il Natale fa di tutto per replicare anno dopo anno la propria magia, diffonde la classicità delle narrazioni umane che, per loro natura, a un certo punto s’interrompono. È così che ai superstiti e alle generazioni successive non resta che scrutare il cielo aspettandosi di vedere aquiloni smarriti ma liberi e veloci in viaggio “verso il Paradiso”. Queste le ultime tre parole affidate da un insospettabile Capote ai lettori d’ogni età mentre si immagina che odori dolci e speziati stuzzichino il naso e s’effondano nelle cucine e nel mondo.