Tronti e Virno alla prova di oggi

Mario Tronti e Paolo Virno. Approfittare dell’uscita quasi in contemporanea de La saggezza della lotta del primo (DeriveApprodi, nov. ’21) e de Negli anni del nostro scontento del secondo (DeriveApprodi, gen. ’22) per ricordare chi è stato Tronti a quanti continuano a celebrarlo come il pater familias anche del post operaismo. In particolare, cosa possa insegnare Tronti alle nuove generazioni dall’alto dei suoi novant’anni, resta sinceramente un mistero. Virno non è un suo nipotino e la sua analisi degli anni Ottanti è lì a dimostrarlo.

Da quando non mi capitava di scorrere pagine patinate lucide che non fossero di riviste illustrate, da sfogliare distrattamente in ambulatorio, più spesso, e qualche volta dal barbiere? È il caso di questo piccolo testo di Tronti che ho tra le mani. Un dono da offrire a vecchi e nuovi amici a ricordo dei suoi novant’anni in una confezione scelta ad hoc[1].

Trattandosi di un dono non ho potuto fare a meno di leggerlo pensando lì per lì che del dono avesse la leggerezza quanto al contenuto, la leggiadria quanto alla forma. Questo nonostante il titolo, La saggezza della lotta, mi evocasse “la saggezza degli antichi, quella greca degli stoici, degli epicurei, dei presocratici in genere e quella romana”[2]. Roba per stomaci forti, ho pensato, dai quali guardarsi nel caso a qualcuno venga in mente di offrire, en passant, un pensierino come si fa tra amici. Poi si incorre in questa chicca e subito ci si ravvede: “c’è saggezza e saggezza, come c’è politica e politica. La saggezza senza lotta è vuota, la lotta senza saggezza è cieca”[3]. Aristotele e la sua bella phrónesis? No, piuttosto “la saggezza dei moderni: quella che comincia a formarsi nel grande Seicento” e si chiude con Pietro Ingrao e la sua piccola corte, la cosiddetta ala sinistra del vecchio Pci[4]. E giù con questa tiritera: per nessuna ragione bisogna uccidere ma per chi sfrutta, “la punizione è azione sacra”; va bene l’ira purché accompagnata all’ironia e l’indignazione è accettabile “solo se praticata con l’organizzazione” [5]. E poi c’è la lotta da condurre con disincanto, ché odio e rancore rovinano il fegato e non fanno guadagnare la stima dell’avversario; se poi lo scontro rimane e più alto è il suo livello, non devi preoccuparti perché sarà la tua persona a guadagnarne in considerazione. A chi Tronti rivolge le sue paratassi in forma di massime? È inutile chiederselo: a tutti e a nessuno, cioè a se stesso. Dopo la stagione operaista degli esordi, con l’autonomia del politico [6] Tronti scopre il Moderno e se ne innamora di passione travolgente. È lì che principia la sua storia del Politico, “segnatamente nel filone del suo spassionato realismo”[7]. Che si conclude nel Novecento, tra il ’14 e il ’45, “l’età vera e propria della grande politica”[8].  Nonostante questa età sia giunta al tramonto e le sia succeduto un piccolo Novecento senza storia, lui al secolo resta attaccato come cozza allo scoglio. L’ha sempre detto: “pianto i piedi in quel secolo e poi da lì guardo indietro e in avanti e da lì non mi muovo e non intendo muovermi”[9]. Non glielo permetterebbe il vuoto che si spalanca oltre il secolo.  Alle miserie del tempo presente non c’è scampo. Che non significa sposare la tesi di Fukuyama della fine della storia. Quella di una storia, invece sì. Si tratta del “meglio della storia novecentesca: l’età delle guerre civili europee, con dentro la rivoluzione d’Ottobre, il great crash del capitalismo, il tentativo di costruzione del socialismo, la lotta antifascista, la Resistenza, la costruzione della Repubblica, la scrittura della Costituzione, quel momento magico del secondo dopoguerra, che ha visto per la prima volta il popolo entrare nello Stato attraverso i partiti di massa” [10]. Già, il popolo, il più inflazionato termine della retorica togliattiana. Tronti ha voluto restituirgli la dignità di concetto politico fin dagli anni Sessanta, quando vestiva Togliatti con i panni del pope Gapon[11], la sua distanza dal Pci sembrava incolmabile e tutta l’attenzione era rivolta alla classe operaia[12]. Semplicemente la classe operaia ne faceva parte ma solo a tempo determinato ché l’idea “di una «nuova classe operaia» che continuamente rinasce, rinnovata e sola, dai vari salti tecnologici del capitale” poteva essere solo di altri, non sua[13]. Se il suo tramonto è di qualche decennio fa, ora è arrivato il momento del popolo. Oggi anche il popolo è morto, lo abbiamo perduto per sempre[14]. Non è un caso che per il suo annuncio Tronti – l’homme du peuple che ha scelto la classe operaia[15] – abbia pensato a Nietzsche e al suo Zarathushtra: il popolo è morto potrebbe essere il suo “nuovo grido”, dice[16]. Con la morte del popolo veramente ai suoi occhi non c’è più alcun Dio che ci può salvare. Tutto attorno “un’umanità emarginata, abbandonata, deprivata, esclusa, i perduti, gli invisibili […]. Un mondo a sé, senza disperazione, anzi con una reciproca simpatia comunicativa”[17].  E così via.

Tempo di bilanci, dunque, e non solo per una questione d’età. Tronti imputa a se stesso di aver fatto troppo poco – di politicamente significativo intende – per la sua gente. Il suo cruccio è di non essere   stato sempre fedele al suo nome, a quel Mario scelto dai suoi perché non perdesse di vista “il rappresentante della plebe romana nelle guerre civili contro gli aristocratici di Silla”[18]. A suggerirmi che forse quel poco era già troppo provvede nel nostro caso l’aforisma da cui siamo partiti e che ispira il titolo, magari suggerendo a chi legge che esso sia il frutto di una vita vissuta all’insegna del pericolo: la saggezza senza lotta è vuota, la lotta senza saggezza è cieca. Tronti nasce politicamente, e vive, dentro il Pci: tessera della FGCI nel ’51, del partito nel ’54, sospesa consensualmente nel ’65,  ripresa nel ’72, rinnovata di anno in anno fino allo scioglimento del partito nel ’91. Poi, a seguire, tutte le sue trasformazioni, dal PDS ai DS al PD, ora come senatore del PDS (XI legislatura), ancora come senatore del PD nella XVII legislatura (2013-2018), infine come presidente del Centro per la Riforma dello Stato dal 2004. Di che lotta parli, non è dato sapere. Forse di quella condotta in solitudine dal ’72 al 1984, ora contro il compromesso storico del suo segretario Berlinguer, ora a favore della proposta di alternativa democratica, sempre di Berlinguer. Esemplare di questa vita ‘sacrificata’ al partito, il suo rifiuto di ogni pratica correntizia, in un rapporto sempre difficile, questo sì, tra appartenenza ed eresia[19]. La saggezza di cui parla Tronti, è tutta qui, in questa capacità di tendere l’elastico e non spezzarlo perché non c’è la volontà di procedere altrimenti. Accade in amore e non c’è da meravigliarsi se accade in politica. Invece Tronti ci vuol far credere il contrario, vale a dire che c’è coerenza tra il suo modo dilemmatico di ragionare politicamente, à la Machiavelli, e il suo modo di abitare il mondo della politica. Però non deve farne cenno da nessuna parte e tanto meno nel suo piccolo dono. Proviamo a cercarne una qualche traccia nei suoi volumi, saggi, introduzioni, prefazioni, articoli: niente. Neppure del suo defatigante lavoro al Senato nei governi Amato, Letta, Renzi e Gentiloni c’è traccia. Se solo ne avesse accennato, avrebbe rivelato il suo stile di abitarlo, quel mondo. Ma soprattutto avrebbe rivelato l’inconfessabile: il suo amore per l’uomo del destino, purché di centro e di alto profilo. Chissà che non chiami tutto questo «compromesso rivoluzionario», magari immaginandosi nei panni di Togliatti versione 1944[20]!

È il motivo per cui diffido della conclusione con cui congeda il suo dono. Al di là dell’afflato leopardiano che l’attraversa – fuori luogo per una prosa che si vuole asciutta e antiretorica – è l’indebita, vanagloriosa sfida lanciata al suo tempo a stonare. Suona male come una moneta falsa[21].

Un’altra aria si respira Negli anni del nostro scontento[22], in cui lo sguardo di Paolo Virno si proietta su una manciata di anni del “piccolo Novecento”, dal 1987 al ’91, ma è vita quello che la prospettiva coglie. Piedi a terra, lontano mille miglia dal cielo etereo della grande Politica, Virno si aggira nel nuovo mondo con il fare curioso dell’antropologo, attento alle forme inedite di vita che contrassegnano sempre più la contemporaneità.

Lo fa senza essersi strappato le vesti per la sconfitta dei suoi negli anni Settanta o cosparso il capo di cenere per la brutta piega presa dal corso della storia subito dopo. Non per un destino baro ma  per un lucido contrattacco dall’alto che ha provveduto a scompaginare tutte le carte e a rimettere ordine nelle cose del mondo. Soprattutto, riconoscimento esplicito della sconfitta del “primo e unico tentativo di rivoluzione comunista in seno al capitalismo maturo”[23]; non sua trasformazione in errore, come vorrebbe la storia raccontata dai vincitori, in cui il verdetto di condanna comporta la pena, che consiste “nel tramutare la sconfitta in colpa. Agli occhi di tutti, anche dei vinti”[24]. Una controrivoluzione che non significa restaurazione, da qualche sprovveduto qualificata come “illuminata”[25]. Virno ha colto questa occasione per procedere a un mutamento di paradigma vissuto in tempo reale lungo tutto il decennio degli anni Ottanta e i primi anni Novanta[26].

Il che gli è servito per stare al passo coi tempi e cogliere l’inedito della rivoluzione, per vedere in maniera un po’ diversa il mondo che altrimenti sarebbe apparso – a lui, marxista critico con la passione della filosofia – quello di sempre, solo più straniante. Certo, lo fa per salvare il marxismo dai postmoderni del pensiero debole[27] che sbrigativamente ne avevano dichiarato la morte annoverandolo tra le grandi narrazioni metafisiche della modernità ma anche da quanti avevano pensato di scrollarsi di dosso il suo storicismo saldando in un sol nodo Karl und Carl [28]. Un ritorno a Marx, dunque, con tutti gli annessi e connessi, ad esempio il tentativo di ficcare il naso nei laboratori segreti della produzione, questa volta postfordista. Con l’intento di sempre: scoprire “non solo come produce il capitale, ma anche come lo si produce, il capitale”[29]. Di questa prossimità al metodo marxiano nel libro c’è più di una traccia, ad esempio le pagine dedicate a I fusi orari del lavoro postfordista [30]. C’è qui non solo il Marx del primo libro del Capitale e pure quello del secondo[31], ma anche il Marx dei Grundrisse, quello dell’operaio che “sorveglia e coordina il sistema automatico di macchine” e la cui “opera consiste per lo più in una gigantesca manutenzione”[32]. Resterà invece deluso chi pensava di trovarvi anche la riscrittura del capitolo sulle macchine e sul nuovo processo lavorativo centrato sulla comunicazione e il linguaggio. Il riferimento a Leibniz ne La vocazione tecnologica della lingua di Adamo[33] non è evidentemente sufficiente. Nessun cenno invece al general intellect che solo più tardi, in «Luogo comune», si prenderà tutta la scena. Gli è che Virno, negli anni di cui il suo libro vuole essere il diario, è più interessato a investigare la sfera del consumo perché dentro ci trova un po’ di tutto. Se la sfera della produzione è avvolta nella nebbia e nel mistero, quella del consumo è illuminata dalla luce abbagliante del sole. In essa si specchia la forma di vita del momento, vale a dire “modi di essere e di sentire”, “sentimenti, tecnologie e tonalità emotive, sviluppo materiale e cultura” [34]. A incuriosirlo è proprio la forma di questa vita che lo specchio del consumo cattura.  Senza restarne incantato però, ché il Nostro non si perde come Narciso dietro immagini e simulacri, dimentico delle cose reali. E difatti trova sempre nella forma di vita un indizio, una traccia, un segnale “dell’odierna produzione innovata”[35].

Al nuovo paradigma bisogna aggiungere pure il concetto di esodo. A suggerirglielo sono stati forse, più di Marx[36], i comportamenti e lo stile di vita della nuova forza lavoro postfordista all’opera nelle metropoli contemporanee: “rinuncia a premere per entrare in fabbrica e restarvi, ricerca di ogni via per evitarla o per allontanarsene. La mobilità, da condizione imposta, diventa regola positiva e principale aspirazione; il posto fisso, da obiettivo primario, si tramuta in eccezione o parentesi”[37].

In questo quadro, uno dei termini che appaiono con più frequenza è ambivalenza[38], a dire innanzitutto che i tratti fondamentali del modo di produrre che tende ad affermarsi sempre più – precarietà, flessibilità, formazione ininterrotta, lavoro linguistico – non sono a senso unico, e non significano la fine della storia ma “costituiscono piuttosto la radice unitaria di rivolte implacabili come pure di una sottomissione paga di sé”[39]. Insomma un campo di battaglia. E spiega anche l’interesse per il rarefatto mondo della logica, in cui galleggiano forme linguistiche come quel tipo imbarazzante che è il condizionale controfattuale che, se nulla dice della realtà, bene spiega la logica che sta dietro la fuga, la diserzione, l’esodo dalle sue condizioni oppressive[40]. Se è così, questo ci permette di assaporare fin da subito, se non il “sole” di Shakespeare – il sole dell’avvenire? Ma chi crede più – che trasforma “l’inverno del nostro scontento” in “radiosa estate”, per lo meno l’aria primaverile che soffia dai comportamenti sovversivi possibili.

Da un problema di mentalità alla costruzione di un nuovo modello politico per ripensare la marxiana lotta di classe il passo sarà breve[41].

Mutamento di paradigma, si diceva, ma qui Kuhn e la scienza c’entrano poco[42]. Né tragga in inganno il piglio autoironico di chi, “in mancanza di meglio, si è dedicato alla filosofia”[43]. Virno si guadagna i galloni di filosofo proprio in quegli anni con Convenzione e materialismo, un primo abbozzo di una filosofia materialista all’altezza dei nuovi tempi. Unico precedente, il materialismo dialettico del vecchio Engels, ormai fuori gioco quanto ad efficacia euristica [44]. Naturale, allora, che il Nostro, erede della tradizione operaista, si rivolgesse altrove. Dei filosofi del Novecento, a Wittgenstein, Heidegger, Bachelard, Frege; dei classici, ad Aristotele, Hume, Kant, Hegel. La sua idea di filosofia come di una multifunzionale cassetta di attrezzi è di quegli anni: Wittgenstein va bene per questa cosa, Aristotele per quest’altra. Sembra facile… Questo modo (strumentale?) di praticare la filosofia è diventato col tempo lo stile inconfondibile del Nostro e negli ultimi trent’anni il lato fascinoso dei suoi lavori.

Il ricordo del cadavere. L’ombra che il corpo getta sul pensiero[45]  rilancia, riprendendola quasi alla lettera, la sfida avanzata nella Parte prima di quel lavoro pionieristico di una filosofia materialista all’altezza, si diceva, dei nuovi tempi. Restituire quella filosofia “alla sua particolare dignità”, dunque[46]. Una sfida non da poco considerando che dai tempi di Engels il mondo nel frattempo si era maledettamente complicato. Chi scommetterebbe oggi sulla dialettica, ancor più se hegeliana, misconoscendo la funzione unificatrice della matematica? Eppure al tempo di questo scritto più di uno si sarebbe appellato al primo capitolo che apre Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin[47]. Bei tempi, tutto sommato, ché almeno ci si divideva e c’era pure da prendere partito in filosofia: prima il sensibile, dopo l’astrazione; no, prima l’astrazione, dopo il sensibile. Ma ecco il Nostro entrare in campo – lo stesso di Engels e di Lenin, vale a dire il campo della conoscenza – a gamba tesa, scompaginando il gioco. Se oggi tutto è convenzione e artificio, se senza il sapere astratto a produrlo e riprodurlo, il mondo cesserebbe di essere e noi che lo abitiamo, senza i suoi linguaggi convenzionali saremmo muti, vale ancora quell’aut aut? Vale finché ci si limita a sparigliare le carte senza cambiare mazzo e regole del gioco. Ricordiamoci l’oggetto del contendere: un nuovo materialismo. Lo è veramente quello che qui, invertendo l’ordine dei termini, ci propone il Nostro? [48] A me pare che per un mutamento radicale del quadro di riferimento dovrà aspettare ancora un po’, all’incirca la metà degli anni Novanta, quelli di «Forme di vita» per intenderci. È negli scritti di questa rivista che un nuovo apparato concettuale prenderà il posto del vecchio ma, a questo punto, piuttosto che di filosofia materialista, si parlerà di una nuova antropologia.  Che è un’altra cosa.

Dopo la filastrocca soporifera di Tronti, il risveglio con Virno. Era ora.

[1] Intervista a Roberto Ciccarelli, il manifesto, 24.07. 2021

[2] M. Tronti, La saggezza della lotta, DeriveApprodi, Roma 2022, p. 13.

[3] Ibidem.

[4] Ibidem.

[5] Ivi p. 10.

[6] Sul tema M. Tronti, Sull’autonomia del politico, Feltrinelli Editore, Milano 1977.

[7] Ivi p. 14. Tronti ricostruisce questa storia in un’opera collettiva di due volumi: (a cura di) M. Tronti, Il Politico. Antologia di testi del pensiero politico 1. Da Machiavelli a Cromwell; Feltrinelli, Milano 1979; (a cura di) M. Tronti, Antologia di testi del pensiero politico 2. Da Hobbes a Smith, Feltrinelli, Milano 1982. Ma vedi anche (a cura di) M. Tronti, Stato e rivoluzione in Inghilterra, Il Saggiatore, Milano 1977.

[8] M. Tronti, La politica al tramonto, Einaudi editore, Torino 1998, p. 23.

[9] F. Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti, Mimesis Edizione, Milano-Udine 2014, p. 270.

[10] La saggezza della lotta, cit., pp. 18-19.

[11] M. Tronti, 1905 in Italia in «classe operaia» 8-9, settembre 1964, p. 16.

[12] M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi editore, Torino 1971, p. 245: “Certo, la classe operaia non è il popolo. Però viene dal popolo. E questo è il motivo elementare per cui chi – come noi – si mette dal punto di vista operaio non ha più bisogno di «andare verso il popolo». Noi stessi infatti veniamo dal popolo.”

[13] Ivi p. 244.

[14] Popolo perduto è il titolo di una lunga intervista concessa da Tronti ad Andrea Bianchi edita da Nutrimenti, Roma 2019.

[15] La saggezza della lotta, cit., p. 23.

[16] M. Tronti, Politica e destino, luca sossella editore, Roma 2006, p. 19. Ma anche Con le spalle al futuro, Editori Riuniti, Roma 1992, p. XIV.

[17] La saggezza della lotta, cit., p. 27.

[18] Ivi p. 22.

[19] Nel Novecento, cit., p. 180: “È determinante in questo atteggiamento l’assunzione del ruolo di intellettuale organico alla soggettività di classe, configurando una presa di posizione che comporta un preciso autodisciplinamento del dissenso individuale”.

[20] M. Tronti, Compromesso in «Laboratorio politico» 2.3, Einaudi editore, Torino 1982, pp. 166-174.

[21] La saggezza della lotta, cit., p. 34: “Bene, quando giunto sarà «il momento di sciogliere le vele», spero di poter dire, con Paolo nella seconda a Timoteo (4.7 e 17): «Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la mia fede… e così fui liberato dalla bocca del leone». La bocca del leone è questa forma di mondo e questa forma di vita che divora i suoi figli. Dall’estremo possibile, ripeterò sino alla fine: non si può accettare!»

[22] P. Virno, Negli anni del nostro scontento. Diario della controrivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2022,

[23] Ivi p. 291.

[24] Ivi p. 212.

[25] M. Tronti, Per un altro dizionario politico in (a cura di) M. Cavalleri, M. Filippini e J. M. H. Mascar, Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015), p. 421.

[26] Prima, lentamente, con «Metropoli» (’79-81), poi più speditamente, con Convenzione e materialismo (’86) e la rivista «Luogo comune» (’90-93). Nel mezzo, Negli anni del nostro scontento. Con la rivista «Forme di vita» (20042007) il percorso è pressoché completato.

[27] P. Virno, Pensatori postmoderni, professionisti nel gioco dell’Uno e dei Molti p. 110; Il postmoderno sul ring p. 150; Postmoderno: la materia sotto i segni p. 217 in Negli anni del nostro scontento, cit.

[28] M. Tronti, Karl und Carl in Il demone della politica, cit., p. 551: “Nel Novecento non è possibile leggere politicamente Marx senza Schmitt. Ma leggere Schmitt senza Marx è storicamente impossibile, perché Schmitt senza Marx non esisterebbe”.  Sul Pci e la sua fine, Il Pci ai supplementari. E non è un bello spettacolo in Negli anni del nostro scontento, cit.

[29] K. Marx, Il capitale. Libro primo, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 208.

[30] Negli anni del nostro scontento, cit., p. 122.

[31] Il capitale. Libro primo, cap. VIII, cit.; Il Capitale. Libro secondo, Editori Riuniti, Roma 1980, Seconda sezione, cap. XII e XIII.

[32] Negli anni del nostro scontento, cit., p. 123.

[33] Ivi, pp. 85-86.

[34]  Ivi, L’ambivalenza di tre sentimenti del disincanto, p. 22.

[35] Ibidem.

[36] Ivi, I pionieri della diserzione: fuga dalla fabbrica verso la frontiera, p. 37.

[37] Ivi, L’esodo come teoria politica, p. 167.

[38] Ivi p. 18, 30, 32, 57…

[39] Ivi p. 286.

[40] Ivi, La crisi dell’idea di progresso documentata dal linguaggio, p. 203.

[41]  Sarà la rivista «Luogo comune» a sviluppare il tema. In proposito P. Virno, Esercizi di esodo, ombre corte, Verona 2002.

[42] T. S. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi editore, Torino 1969.

[43] Ivi p. 7.

[44] F. Engels, Anti-Düring e Dialettica della natura in Marx-Engels, Opere complete, XXV, Editori Riuniti, Roma 1974. Ancora negli anni Ottanta solo il marxismo del Movimento Operaio gli era rimasto fedele. In proposito L. Geymonat, Storia del pensiero filosofico e scientifico, V (2), Garzanti Editore, Milano 1988, pp. 419-432.

[45] Negli anni del nostro scontento, cit., p. 48.

[46] Ibidem.

[47] V. I. Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, Editori Riuniti, Roma 1969.

[48] Negli anni del nostro scontento, cit., p. 51: “Questo rovesciamento di posizioni tra concetti e sensi, ovvero tra sapere e vita, è forse la questione centrale. Si invertono il «prima» e il «dopo». Il sapere astratto, alla cui costruttività infondata poco importano i reperti dell’esperienza sensoriale, introduce a un guardare diretto, facendo di quest’ultimo il risultato finale della conoscenza. I sensi si giovano delle convenzioni teoriche come di feritoie o piedistalli che, se orientano la vista, non per questo la mediano, non per questo ne ledono la freschezza”.