Con Radical choc Raffaele Alberto Ventura (RAV) completa la trilogia dedicata all’ascesa e al declino della “classe competente” nelle moderne democrazie industriali. Milanese con base a Parigi, dove collabora con il Groupe d’études géopolitiques e la rivista Esprit, RAV si è ritagliato in pochi anni la fama di pensatore eclettico, uso a spaziare tra antropologia, scienza politica, sociologia, congiungendo ad analisi mai banali o accademiche solida erudizione e discreta net credibility, anche attraverso la sua pagina “Eschaton”.
Se nei volumi precedenti ha portato alla luce aspettative e disillusioni del ceto creativo precarizzato, in cui l’autore non ha smesso di riconoscersi almeno in parte (con il bestseller Teoria della classe disagiata, Minimum Fax, 2019) e poi indagato la faglia della diaspora populista in seno alla tradizione liberale (La guerra di tutti, Minimum Fax, 2019), nel mirino questa volta è il sistema stesso della competenze, a cui le società occidentali hanno da tempo consegnato le chiavi di casa e che le molteplici crisi – quella pandemica, ultima in ordine di tempo – hanno crudelmente messo a nudo negli anni recenti.
La tesi del libro è che il processo di razionalizzazione delle società industriali avanzate – già individuato nell’analisi di Weber della burocrazia e alla base oggi di qualsiasi avanzamento nel campo di scienza, finanza, management o tecnologia – incontri ora un ostacolo sostanziale, forse insormontabile, nella legge dei marginali rendimenti decrescenti. Le soluzioni con cui il sistema prova a fronteggiare ogni nuovo problema (che si tratti del riscaldamento globale, della grande recessione o della prossima crisi sanitaria) risulterebbero infatti sempre meno produttive a fronte delle criticità che a loro volta producono come effetto collaterale. Quello che nell’immediato viene risolto nel sottosistema X (fame nel mondo, emergenza alimentare) si traduce presto in un nuovo problema nel sottosistema Y (più inquinamento, avvelenamento delle falde acquifere), non appena le nuove “soluzioni” vengono tradotte e applicate a un corpo sociale per altro sempre più scettico e recalcitrante.
Resistenze e critiche alla tecnostruttura sono quindi destinate a trovare nuovi proseliti, e le loro ragioni non sono affatto circoscrivibili al populismo dei nuovi influencer politici o allo scetticismo ultraliberista di un filosofo-trader come Nassim Nicholas Taleb – resistenze e critiche hanno infatti radici profonde nel pensiero del Novecento, da Foucault a Debord, da filosofi della scienza come Thomas Kuhn e Paul K. Feyerabend e a sociologi come Pierre Bourdieu. Con la crisi delle “competenze” non solo, una dopo l’altra, sono venute meno le promesse della modernità, ma si fa sempre più fatica a giustificare persino la vecchia narrazione hobbsiana sull’origine delle società umane, man mano che la domanda di sicurezza, da cui trarrebbe legittimità il patto con il Leviatano (dunque con lo stato nazionale), risulta in ultima analisi disattesa.
Dalle prime pagine di Radical Choc emerge però chiara, anche la premessa forse più indigeribile. I dispositivi della razionalità sociale, con tutti i limiti che a questa oggi possiamo anteporre – e che il libro passa scrupolosamente in rivista: dai riti di autoselezione della casta accademica agli shit job della classe manageriale e delle professioni creative, passando per il mito dell’ottimizzazione e della meritocrazia, non sono abiti che si possano indossare e dismettere a piacimento. Per usare una metafora: siamo su un treno (la società delle competenze) lanciato a velocità sempre più veloce verso il prossimo disastro (o, se va molto male, catastrofe) e sappiamo che il macchinista (la tecnoscienza) non è infallibile perché si è già dimostrato altre volte inadeguato. Ebbene, non per questo è più facile immaginare di tirare il freno e saltare dal convoglio. Per RAV il problema riguarda, in generale, il patto faustiano contratto con la modernità tecnocratica, poco importano il colore delle casacche o l’ideologia economica dominante, buone tutt’al più per mobilitare i corpi e le menti dei governati. Democratica o autoritaria, keynesiana o neoliberale, di mercato o di piano, qualsiasi società avanzata non potrà che fare i conti con i rendimenti decrescenti derivanti dalla crescente complessità della sua rete gestionale, logistica, laboratoriale, ecc. e quindi, in subordine, dalla crescente specializzazione dei suoi saperi innovativi, dai criteri di selezione dei suoi manager, scienziati, professionisti, competenti da cui dipende bene o male o anche malissimo la nostra (auspicabile ma non scontata) sopravvivenza sul pianeta.
Parafrasando Mark Fisher e Fredric Jameson, è più facile immaginare la fine del mondo che la fine della società tecnologica – cioè in pratica, di qualsiasi società – che tende oggi a configurarsi come “destino” e non come scelta collettiva. In pratica, ci troveremmo di fronte a un altro, gigantesco TINA (There is no alternative), contro cui continuare a sbattere al termine del cammino d’Occidente (l’Oriente nel saggio non compare mai, ed è forse un suo limite), privi come siamo di un credibile piano B. Il bicchiere mezzo pieno, insomma, è già stato bevuto. RAV, anzi, ci mette il carico da novanta, ammantando di pessimismo storico il finale sibillino. “La storia della Ragione non è altro in fondo che la storia della sua bancarotta”. Sipario. Sigla.