Il libro di Sergio Luzzatto dedicato alla vita di Guido Rossa si segnala, nell’ambito della storiografia dedicata alla lotta armata negli anni Settanta del secolo scorso in Italia, per una inversione di tendenza. Innanzitutto perché, pur essendo un’opera dedicata a un operaio ucciso dalle Brigate Rosse, ci si sofferma più sulla sua vita che sulla morte, quindi sulla persona più che sulla vittima; e la vita di Guido Rossa, tutt’altro che banale, consente a Luzzatto di mettere in scena uno scorcio sull’Italia del primo Dopoguerra, a partire dalle migrazioni dei veneti negli anni trenta fuori della loro regione alla ricerca di lavoro per soffermarsi sull’economia del baliatico: è al seguito della mamma, una balia da latte, che la famiglia di Guido Rossa, originaria del bellunese, si ricongiunge in Piemonte. Anche la descrizione della vita del piccolo e poi giovane Guido è coinvolgente, con i suoi tormenti e le insanabili contraddizioni, quelle di un uomo non necessariamente simpatico, sempre in bilico tra l’anomalia e l’eccezionalità.
Che un uomo con connotazioni così complesse e sospinte sino al limite (uno scalatore da sesto grado, un paracadutista, una persona sempre tentata dalle imprese eccezionali e individuali) sia diventato nella sua maturità un sindacalista comunista, è un fatto che non può che discendere dalla temperie, dal clima generale nel Paese in quel tempo e, ancor più, dalla forte influenza culturale e antropologica della classe operaia genovese in mezzo alla quale Guido Rossa si trovò dopo la sua seconda migrazione, quella dalla Fiat di Torino all’Italsider di Genova. A Genova scelse di diventare uno di loro, uno dei mitici operai genovesi, sia pure attraverso la mediazione dell’attività sindacale, che con i suoi distacchi gli consentiva, anche, di non rinunciare del tutto alle sue passioni nonché al proprio modo estremo di concepire l’esistenza. Ma, nonostante anni di tirocinio sociale nelle cucine della festa dell’Unità e nella sede del consiglio di fabbrica, continuò a essere uno che doveva andare e agire da solo, se si trattava di fare scelte decisive, fino all’ultima e fatale: dal suo punto di vista, una vetta poteva essere raggiunta in cordata, ma il crepaccio non lo si poteva saltare a braccetto con i compagni. Doveva fare da solo, e infatti, nelle testimonianze che conosciamo, non ce n’è una in cui i suoi compagni di sindacato menzionino l’esistenza di un accordo tra loro sulle modalità della denuncia contro Francesco Berardi, e nel contempo si dichiarino colti di sorpresa dalla sua decisione di testimoniare da solo contro il compagno di lavoro sorpreso a diffondere in fabbrica volantini delle Brigate Rosse; salvo dichiararsi, gli stessi compagni di sindacato e partito, successivamente alla tragedia, obbligati nei confronti di Guido Rossa e a lui riconoscenti per quella scelta di denunciare un compagno di lavoro che, pur ponendosi agli antipodi rispetto alla tradizione del movimento operaio, obbediva alla logica allora dominante dello stato di necessità generato dall’emergenza terroristica e introduceva una nuova morale operaia, quella della collaborazione con lo Stato democratico “nato dalla Resistenza” (vedi a questo proposito il discorso di Luciano Lama il giorno del funerale); nonché tutti senza pace e in preda al rimorso per aver avallato, con il loro atteggiamento inerte e incerto, la scelta solitaria di Rossa.
La vicenda tuttavia, con le tragedie cui diede luogo, aveva più a che fare con la rappresentazione che con la realtà; erano a confronto simboli e armamentari ideologici ormai esangui ma è proprio questo match che alimenterà una narrazione destinata a mantenersi a lungo, fino a oggi, distante dall’effettività delle cose. In fondo, il nemico della classe operaia, il cui attacco è sventato da Rossa, non è che il mite e isolato Francesco Berardi, un operaio che distribuisce stampa clandestina in fabbrica (non risulta, infatti, che la penetrazione brigatista all’Italsider sia andata sostanzialmente oltre questo stadio). Cosa sarebbe successo se Rossa, umanissima persona, non avesse denunciato il suo compagno di lavoro? Dal punto di vista della classe operaia genovese, senza dubbio nulla sarebbe cambiato: all’Italsider (e non solo) per le BR (e non solo) non c’era alcuno spazio politico, e le BR, nelle quali giovani militanti continuano ad affluire anche dopo l’uccisione di Rossa, nel giro di due anni sarebbero collassate a seguito di una propria crisi interna che genera decine di chiamate in correità, il che è anche l’esito di un disordinato reclutamento anch’esso prevalentemente estraneo al contesto di fabbrica. Definitivamente, il gesto di Rossa si qualifica, allora come oggi, per la sua natura simbolica e per i contenuti di significato che ha espresso e contribuito a evocare.
Nel corpo dell’operaio siderurgico Guido Rossa, assurdamente ucciso dall’operaio marittimo Riccardo Dura [1], un attimo dopo la sua morte si riconobbero quasi tutti, a sinistra, perchè il suo sacrificio riattivava il dispositivo della resistenza e dell’antifascismo operaio e in qualche modo lo riattualizzava. Ovviamente si trattava del trionfo dell’inautentico. Perchè non c’era nulla di autentico, in questa storia, a eccezione del sangue versato. Non c’era alcuna minaccia fascista né terroristica contro la classe operaia genovese, minacciata invece, bensì di sparizione, dalle crisi di settore, in particolare da quella del comparto siderurgico che avrebbe portato nel giro di pochi anni lo stabilimento di Cornigliano alla sostanziale chiusura con il pre-pensionamento di gran parte dei dipendenti. Poiché le Brigate Rosse erano un’organizzazione veramente modesta e isolata al cospetto delle organizzazioni sindacali e di partito nonchè del loro incontrastato consenso in città, la scelta di caratterizzare le esequie di Rossa contro di loro, i terroristi, come se si trattasse di opporre la forza operaia a un golpe autoritario e ci fosse bisogno di un nuovo “30 giugno”, unita a quella di usare la commozione del momento per agitare opportunisticamente le bandiere del compromesso operaio con le istituzioni democratiche (viatico e fondamento per i governi della concertazione), funzionò per tenere lontana o rimuovere, anche negli anni a venire, la coscienza della crisi e dell’incombente declino, materiale oltre che politico, della classe operaia.
Ciò non toglie che al funerale di Rossa abbia sentitamente partecipato una massa enorme di persone: perché ancor più lontano dalla tradizione del movimento operaio stava l’omicidio politico di un operaio da parte di un’organizzazione che si dichiarava apertamente rivoluzionaria e anticapitalista. L’azione terroristica delle BR raggiunge qui il punto di non ritorno e attira su di sé il massimo di visibilità mediatica, come da suo consueto programma, con l’effetto nefasto di contribuire a seppellire nella dannazione della memoria l’intera stagione del conflitto sociale e politico iniziata oltre dieci anni prima.
Anche a distanza di decenni fa effetto rileggere il comunicato delle BR, quello dell’”ottusa reazione”, per il suo patetico tentativo di insinuare che il nucleo dell’organizzazione in realtà non aveva ucciso alcun operaio ma giustiziato una spia e delatore che, per svolgere meglio il suo compito, si era infiltrato tra gli operai camuffandosi da delegato sindacale. Come a dire: un operaio non può essere delatore o infame.
Lo stesso trattamento che, rovesciato, verrà usato per Francesco Berardi [2] quando, pur a fronte delle sue rivelazioni sull’identità del militante con cui era in contatto, le BR decisero, dopo il suo suicidio, di intitolare a lui la colonna genovese: perchè un compagno operaio non poteva aver ceduto e rivelato dettagli sull’organizzazione ai carabinieri. E ancora, se vogliamo rimanere sul tema della negazione ottusa della realtà, è questo lo stesso meccanismo che induce le BR-Partito della Guerriglia (quelle di Giovanni Senzani) a sequestrare Roberto Peci accusandolo delle infamità del fratello Patrizio; perché un compagno dirigente delle BR non poteva aver tradito. Oppure, se lo aveva fatto, aveva iniziato a farlo dopo essere diventato un’altra persona, con un’altra identità, quella di una spia al servizio dello Stato: di qui la costruzione dell’improbabile storia del doppio arresto di Peci.
Nella seconda parte del volume, quella dedicata alla morte di Rossa, lo storico fornisce una versione plausibile della dinamica del fatto di sangue: una reazione veemente, ancorché solo verbale, dell’uomo ferito ma indomito e sprezzante, può avere spinto Riccardo Dura a tornare sui suoi passi per ucciderlo. Sergio Luzzatto mira a una ricostruzione degli eventi completamente libera da pregiudizi e luoghi comuni politici, ed è una delle prime volte che accade, per quanto ci risulta. È la prova che il lavoro dello storico può sgrovigliare la matassa là dove i fili delle narrazioni si sono fatti inestricabili e ci avviluppano ancora oggi. Il lavoro obiettivo dello storico, e non solo di quello contemporaneo, possiede, quindi, anche una valenza politica, quando rende possibile quel guardarsi indietro in grado di orientarci sul davanti.
L’opera di rimozione dei luoghi comuni su cui si è fondata la falsa narrazione di più di quattro decenni di vita e politica in Italia deve pur cominciare, prima o poi. Per quaranta anni è stato possibile parlare di “anni di piombo” riferendosi in modo esclusivo al terrorismo delle Brigate Rosse, di Prima Linea e di altre organizzazioni armate, proprio nello stesso periodo in cui le guerre interne dell’antistato mafioso e della nuova camorra organizzata mietevano morti sulle strade al servizio di economie basate sul traffico di stupefacenti e di voti elettorali. Per quaranta e più anni, e ancora oggi, è stato possibile parlare di misteri, di servizi segreti a proposito del cosiddetto terrorismo rosso (in esso appiattendo la decennale vicenda di un movimento anticapitalistico ricco di fermenti trasformativi), proprio nello stesso periodo in cui nessuna delle stragi di chiara matrice terroristica è stata oggetto di una ricostruzione giudiziaria decente, prevalentemente a causa dei depistaggi di Stato. Per quaranta è più anni è stato tenuto in piedi un sistema di leggi che premiano la delazione, e su di essa prevalentemente basano la prassi inquirente, e che con l’aggravante di terrorismo impediscono di fatto l’esercizio della forza in piazza, unica forma in cui tradizionalmente i ribelli e gli sfruttati possono esercitare la loro critica al potere costituito, rendendola visibile, e nella quale da sempre hanno modo di riconoscersi e conoscersi.
- Riccardo Dura, già militante di Lotta Continua, dopo aver navigato su navi da trasporto, era divenuto in clandestinità il dirigente della colonna genovese delle Brigate Rosse, presente e attivo in molti degli attentati sulle persone, invalidamenti e omicidi, commessi dall’organizzazione tra il 1976 e il 1980. Nella notte del 28 marzo 1980 venne ucciso con un colpo alla nuca sparato dalla distanza di venti centimetri (come risulta dall’esame autoptico presente nel fascicolo giudiziario) durante una irruzione dei Carabinieri nella base genovese di via Fracchia, nel corso della quale vennero colpiti a morte altri tre militanti delle BR. Nessun tentativo di ricostruire in modo attendibile le dinamiche della perquisizione e del massacro da parte del nucleo dei CC, guidati dal Cap. Michele Riccio (il regista del fasullo “blitz di Dalla Chiesa”, successivamente condannato in via definitiva per numerosi abusi giudiziari), è mai stato, fino a oggi, intrapreso dalla magistratura.
2. Francesco Berardi aveva lavorato all’Italsider dal 1956, inizialmente come operaio in zincatura. Dopo aver militato in Lotta Continua, tra il 1977 e il 1978 era entrato nelle Brigate Rosse, ed era in contatto, come egli sostenne dopo l’arresto, con un militante delle BR di cui fornì una descrizione in cui era decisamente riconoscibile Enrico Fenzi. Trasferito su disposizione del generale Dalla Chiesa proprio nel carcere speciale di Cuneo, dove si trovavano in quel momento molti dirigenti delle Brigate Rosse, morì suicida il 24 ottobre 1979. Le Brigate Rosse intitolarono a Francesco Berardi la colonna genovese dell’organizzazione, per affermare contro l’evidenza degli atti giudiziari l’integrità del “militante operaio”, mentre il Consiglio di fabbrica e il Comune di Genova dedicarono a Guido Rossa un monumento in Piazza Piccapietra (di cui va segnalata per obiettività l’orribile e ingenerosa concezione) per affermare la moralità “militante, civile e democratica” della denuncia e della collaborazione con gli inquirenti.
Questa recensione viene pubblicata contemporaneamente su Machina.