L’Italia si scopre ogni giorno un po’ più multiculturale, guardando attraverso le crepe di un’identità nazionale recente ma da sempre razzializzata. Lo scopre (anche) attraverso la musica, la moda, i romanzi e soprattutto le voci di una giovane e vivace “classe creativa”, in particolare afroitaliana, che ha preso finalmente la parola e non intende mollarla più. Qualcosa si è messo in moto e qualcos’altro lentamente sta cedendo come intonaco marcio. Il rischio più grosso, ora, è forse quello di banalizzare “noi”, nati con la stessa cittadinanza dei nonni e cresciuti con una patente variamente progressista; un rischio che si avverte dietro a parole importanti come identità, radici, “birazziale”, entrate nel lessico comune senza passare per il processo del vissuto e dell’identificazione. Obichukwuka Leandro Lyone, freelance writer e blogger (Dugiotto) ce ne parla, e ci parla della sua esperienza, attraverso il punto di vista della lettura e della scrittura, in questo articolo.
L’Italia è una terra magica, se fossi una qualche entità soprannaturale, esente dai limiti imposti dal tempo e dallo spazio, la vedrei forse come un accorpamento di irrelate particole cristallizzate in una sfera. Visibili, in ottima conservazione, ma immobilizzate dalla densità della materia che le sovrasta. Mi stupirei come si stupisce un bambino nel vedere un insetto intrappolato nell’ambra, fuggito alla degradazione estetica, ma privato della vita ormai già da tanto tempo.
Io e l’Italia abbiamo tante cose in comune, per esempio, entrambi siamo il risultato di una relazione “interrazziale”, per usare un gergo tecnico di vecchia data (nel caso della mia cara Italia si è trattato di una relazione piuttosto promiscua). Io e lei siamo molto uniti, ci percepiamo nella mente in forma quasi telepatica e a volte la sento lamentarsi del giogo imposto dall’inerzia storica. Conosce bene i suoi confini ma è offuscata e non riesce a ricordare bene chi è veramente. La sento vicina perché forse sperimentiamo gli stessi conflitti, pure io riconosco “i miei confini”, la mia esteriorità, ma questi sono sufficienti per definire chi sono?
E’ una bella sfida essere bi-razziali in un Paese che per austerità e decantazione culturale fa fatica ad incorporare chi non è in linea con il “falso” canone di un aspetto conforme a determinate caratteristiche etniche/“razziali”. Sono sempre stato visto come metà italiano e metà nigeriano, mai come italiano e nigeriano allo stesso tempo. Strano che in una tradizione intrecciata per secoli con un’istituzione religiosa fondata sull’impronta di un divino Maestro dalla triplice natura, sia così difficile accettarne una duplice.
Dire “Metà italiano” è già una connotazione, può inconsciamente implicare l’essere “meno” italiano, scoraggiando l’individuo ad appropriarsi senza remore di una cultura che gli è dovuta per retaggio. Per ironia della sorte, si verifica lo stesso disguido nel contesto dell’altra metà, quella africana (anche se in forme più lievi). Un nero tra i bianchi e un bianco tra di neri. Se non sono né un nero e né un bianco, dunque, chi sono io?
E’ un quesito esistenziale che mi ha perseguitato a lungo e che ha alimentato le mie più profonde insicurezze. Poi Qualcuno o Qualcosa ascoltò le mie preghiere e mi indicò gli strumenti necessari per intraprendere questo viaggio verso la mia identificazione: i libri.
“Non puoi progredire senza sapere chi sei”, è un monito che iniziai a comprendere, per fortuna, già in tenera età quando lessi forse un pò troppo prematuramente Radici di Alex Haley. Non ero sicuramente pronto per una lettura così impegnativa, ma a volte i libri ti scelgono, e non si può disattendere certe volontà. Kunta Kinte rivisse nella mia mente e, viceversa, io partecipai come spettatore o contemplatore nelle sue memorie, condividendo emozioni e prospettive.
Che tenebrosa magia quella dei libri, come possono dei segni grafici impressi sulla carta ricostruire in maniera così vivida ciò che fu, che è, e che sarà nella mente di qualcun altro o altra? Ai tempi però non percepivo tutta questa magia, un libro era semplicemente un libro, ma certe cose si comprendono con l’esperienza, come gli avvertimenti di un vecchio saggio, già consapevole che il suo insegnamento verrà colto solo nel momento propizio dai posteri. Così “Radici” seminò in me qualcosa che sta germogliando ora, in piena fase di maturazione. Ho colto il suo insegnamento, e cioè che non ci si può elevare se non si conosce la propria storia. Le radici sono appunto la conoscenza della propria storia, e un albero non può dare buoni frutti se non ha delle radici solide e sane.
Quindi, sono stati proprio molti libri di storia ad avermi accompagnato in questo percorso ma qui vorrei rendere omaggio a tre libri in particolare (non tutti di storia), che hanno formato le linee guida per gran parte delle letture fatte in seguito. Ecco la mia triade dell’identificazione:
- Let your life speak di Parker J. Palmer (Jossey-Bass, 1999), “fai parlare la tua vita”, opera breve e di facile comprensione che è stata motivo di ispirazione nella scelta dell incipit del mio blog personale. Purtroppo non esistono traduzioni in italiano, ma per fortuna è stato scritta in un linguaggio semplice e chiunque abbia anche una conoscenza basica dell’inglese potrebbe leggerla. L’autore è un insegnante appartenente ad una comunità quacchera di Filadelfia, il libro ha come obiettivo minore quello di accompagnare il lettore in un viaggio insidioso, esplorando con onestà ed attenta osservazione le profondità del proprio Io, servendosi anche degli insegnamenti di un Gesù un pò diverso da quello spesso rappresentato dalle grandi istituzioni cristiane, un Gesù meno dogmatico e più introspettivo.
L’obiettivo principale è comprendere quali possano essere le nostre vere vocazioni ma, arrivati a questa tratta del viaggio, l’autore si congeda, perché da qui in avanti soltanto la nostra coscienza, spogliata da qualunque costume imposto dalla società, può indicarci le giuste direzioni. Questo libro non tratta sicuramente di storia ma è stato fondamentale nella mia ricerca perché mi ha spronato a chiedermi “Chi sono io?” e “Quali potrebbero essere le mie vocazioni?” con più coraggio ed insistenza, riflettendo queste questioni anche sul piano etnico/culturale. - La nostra specie, natura e cultura nell’evoluzione umana di Marvin Harris (BUR, 2002).
Se il libro precedente mi ha esortato a chiedermi chi sono IO come individuo, questo invece mi ha portato a tentare di rispondere alla domanda: chi siamo NOI come specie umana? È un excursus antropologico che analizza in maniera concisa e “oggettiva” l’evoluzione delle consuetudini, delle credenze e della morale umana dagli albori dei primi sistemi sociali degli ominidi fino alle nostre super-intricate società globalizzanti.
In particolare “La nostra specie” mi fece comprendere come l’origine di ogni osservanza e, quindi, di ogni tradizione non sia stata casuale. La cultura è relativa all’ambiente e le contromisure che vengono favorite dal gruppo per fare fronte alle esigenze o alle impervietà del clima e del contesto storico diventano innovazione. Una tribù muove guerra per necessità, implementa delle regole per necessità e si evolve a Stato per necessità. È stata appunto la necessità ad ordire la trama della nostra lunga ed eppure breve storia. Una storia ciclica che si ripropone sotto spoglie diversificate dalla moda e dalla tecnologia, ma identica nell’essenza. Così come sono cicliche le nostre identità etniche, come se i territori fossero stati concessi in leasing ora per un popolo e ora per un altro, anche se, purtroppo, il tempo con la sua inerzia spesso ci porta a credere – come gruppo dotato di una specifica identità – di esserne proprietari, stanziati da sempre e per sempre.
Dunque ho imparato che in realtà non siamo proprietari eterni di un bene immobile, piuttosto siamo noi ad essere un bene mobile (a scadenza) di un “locatore quasi eterno”. - Questo ultimo assunto viene ripreso e temprato in From Babylon to Timbuktu di Rudolph R. Windsor (Windsor Golden Series, 1988). Anche questo testo è disponibile solo in lingua inglese, è un poco più impegnativo dell’altro ma comunque breve. Si tratta di una sofisticata ricerca che rivisita compendiosamente la storia di un’area geografica che va dal Medio-Oriente sino alle coste dell’Africa occidentale, facendo luce sulla forte presenza ed influenza della componente etnica di matrice africana che popolò queste regioni nei tempi più remoti. Anche se l’autore si serve di termini che io considero “superati”, (come ad esempio quelli legati a categorizzazioni di “razza”) comunque fa intendere bene quanto le civiltà che si affacciano sul Mediterraneo siano state soggette ad un’eterogeneità che si è irradiata attraverso i secoli, che io definirei come “meticciato secolare”, o forse meglio millenario.
Devo ammettere che questo libro non rientra tra i miei favoriti, ma non posso fare a meno di riconoscergli il grande insegnamento che mi ha lasciato, ovvero che la Storia, così come spesso viene comunemente narrata, risulta unidirezionale, quando per la verità non lo è quasi mai. Bisogna prendere atto del fatto che spesso (non sempre e non mai) la storia la scrivono i vincitori ma chi vince non vince per sempre.
Ho compreso che per visualizzare con chiarezza un quadro d’insieme conviene essere di larghe vedute, disposti a considerare con senso critico diverse fonti e narrazioni, e quindi “non bisognerebbe mai emettere un verdetto dando ascolto ad una sola campana”.
Ma più di tutto, ho imparato che la rappresentazione della storia è pure molto importante. La “più recente” dominanza etnica e culturale di impronta germanica/anglosassone sul continente europeo ha un pò alterato e anche offuscato le immagini della nostra storia. In passato ho fatto molta fatica a non estraniarmi completamente da una storia e da una tradizione che non consideravano quelli con una fisionomia simile alla mia. E se non era disposto ad accettarmi il presente, per quale motivo avrei dovuto pretendere che mi accettasse il passato?
Ho preso più confidenza con questo lato della storia quando imparai che nella realtà dei fatti, il mio aspetto avrebbe potuto assomigliare a quello di tantissimi meticci che popolarono questa penisola in un’epoca in cui gli Imperi comprendevano più di un continente. Un’epoca che ha preceduto le nuove teorie razziali degli ultimi secoli e quindi, anche la sovrapposizione di queste identità razziali con quelle nazionali. Un’epoca in cui il meticciato culturale costituiva la normalità e in cui proprio questa normalità ha consolidato e lastricato lo splendore del celato sincretismo nel nuovo mondo occidentale. La mia fisionomia non differiva da quella di tanti protagonisti che hanno popolato il nostro passato, di tanti personaggi descritti nella mitologia greca; poteva rassomigliare a quella di Gesù o dei primi padri fondatori della Chiesa e del pensiero cristiano.
In questo tempo, io ora annuncio con fierezza chi penso di essere, anche senza certezze assolute, sapendo di dover risalire per aree ancora inesplorate, però ho intrapreso un processo d’indagine (spesso scomoda) che mi ha permesso di raggiungere uno stato di meraviglia. Meraviglia per la mie sfaccettature, per le plurime ascendenze della mia storia e per la potenziale ricchezza culturale a mia disposizione.
Questo stupore mi permette di accettarmi per chi sono veramente e di vivere la mia esistenza con più pienezza e creatività. Come dicevo all’inizio dell’articolo, a volte mi sembra che l’Italia mi comunichi rimuginando tra sé e sé i sintomi di un malessere interiore. Ma come è successo a me, spero che anche lei si impegni a rimuovere la polvere tra le sue radici per meravigliarsi. E, una volta consapevole della sua vera ricchezza culturale, per riscoprire se stessa.