Casa accadrebbe se scoprissimo di non conoscere i nostri genitori? Non nel senso retorico per cui in definitiva non conosciamo veramente le persone che ci sono vicine e a cui pensiamo di voler bene. No, è proprio il “non conoscere” nel senso che non si sa chi siano. Non si conosce il nome, il cognome, l’età. Non sappiamo dove abitino, che lavoro facciano. Se questo accedesse saremmo presi da una forza interiore, forse da un’ossessione, sicuramente da una necessità: riempire questo vuoto con l’immaginazione, con un racconto. È a questo punto che nasce la letteratura, la necessità delle parole.
Lo si capisce molto bene dall’ultimo libro di Paolo Di Paolo, critico letterario e scrittore, autore di altri cinque romanzi, quattro saggi e alcuni racconti per ragazzi. Il libro ha per titolo Lontano dagli occhi e racconta le vicende di tre giovani donne e dei loro compagni. Luciana, Valentina e Cecilia hanno in comune il fatto che sono in attesa di un figlio. Tutte e tre sono (diversamente) turbate e disorientate da quello che sta succedendo loro e tutte e tre trovano nei loro compagni una sponda piuttosto insoddisfacente per elaborare e gestire la loro peculiare situazione emotiva, pratica e generazionale.
Tutto accade negli anni Ottanta vissuti come anni di contrasto tra il cosiddetto “riflusso” e il ritorno al privato e l’accadimento di fatti a livello storico e politico di importanza epocale.
Valentina è la più giovane delle tre donne. Ha diciassette anni e rimane incinta del suo fidanzato Ermes con cui smette di parlare, una volta appresa la notizia, un po’ per ripicca perché si sente tradita e “incastrata”, un po’ per orgoglio e paura. Ermes non parla e cerca di sottrarsi alle sue responsabilità. Cecilia vorrebbe fare la psicologa, ma l’arrivo del bimbo interferisce con i suoi sogni e i suoi desideri di futuro. Almeno lei crede.
Poi c’è una ragazza in forte antagonismo con la società e la morale comune. Si chiama Cecilia e, quando non è in giro con il suo cane, vive in una casa occupata. Ha una relazione con Gaetano che ci appare presente ma mai attivo. Gaetano lavora in una rosticceria e incontra Cecilia solo saltuariamente e quando vuole lei. Infine c’è la giovane donna più integrata tra le tre. Si chiama Luciana e lavora in un giornale in via di chiusura. Il suo uomo è assente perché lontano. Ha capelli rossi che gli hanno fatto meritare il soprannome di Irlandese.
Il ruolo dello scrittore è seguire le loro vicende. Cogliere i suoi personaggi nei molti momenti di fragilità e nei pochi momenti di gioia e serenità. Crescono le pance delle future mamme, cambiano le relazioni con i loro compagni, aumentano le incertezze sul futuro. Le poche aspettative lasciano il passo alle molte paure. Le tre coppie sono lo specchio di una società che non ha saputo elaborare in nessun modo la crisi della famiglia con cui si cerca di fare i conti fin dagli anni Settanta.
Certamente emerge l’incapacità di uomini e donne, specialmente degli uomini, di fare i conti con la responsabilità della crescita, del diventare adulti. In quel momento tutto si mescola, le aspettative deluse che riguardano lo studio e il lavoro sembrano inquinare qualsiasi immagine di tenerezza che potrebbe riguardare la messa al mondo di una creatura.
È difficile essere genitori come è stato difficile essere figli, una dimensione che rischia di imprigionare una determinata generazione che si dibatte tra la luce delle speranze e la morsa feroce degli inganni.
Cosa decidono di fare queste tre donne non lo sappiamo. Verso la fine del percorso, il libro propone una cesura con l’uso di una pagina nera. Da lì in poi, per poche densissime pagine, entrerà in campo un altro personaggio. Un alieno, un figlio. E il romanzo diventerà veramente universale sotto l’egida di una frase “niente ci accomuna come essere figli”. E non importa più se si è nati da una donna nota oppure si è il frutto di una adozione.