B. Traven / Naufragio infernale

B. Traven, La nave morta, tr. di Matteo Pinna, Wom Edizioni, pp. 330, euro 20,90 stampa

B. Traven, talvolta citato anche come Bruno Traven, è uno degli scrittori più misteriosi di tutta la letteratura. Teneva così tanto alla sua privacy – “Se l’uomo non può essere conosciuto attraverso le sue opere, allora o l’uomo non vale niente o le sue opere non valgono niente”, diceva – che la sua vera identità non è mai stata svelata: non esiste una singola sua foto autentica (esclusivamente alcune del tutto congetturali), non una data di nascita e di morte, non una biografia. Solo una bibliografia. Una ventina di libri, tra romanzi e racconti, presumibilmente scritti in un tedesco anglicizzante e tradotti in un inglese germanizzante (o forse il contrario).

Teorie tante, ma prove nessuna. Quando il suo più grande successo, Il tesoro della Sierra Madre, del 1927, fu trasposto da John Huston in un film omonimo, con protagonista Humphrey Bogart, che nel 1948 vinse tre premi Oscar, mandò sul set un suo delegato che si spacciava per lui e non si presentò mai di persona: anche in quell’occasione il mistero restò insoluto. Fu forse l’ex attore e giornalista anarchico Ret Marut, condannato a morte dopo il rovesciamento della Repubblica Socialista di Baviera nel 1919, fuggito negli Stati Uniti e poi (forse) in Messico. Oppure fu Otto Feige, che prese lo pseudonimo di Ret Marut (anagramma della parola tedesca Traum, sogno), nato a San Francisco da una famiglia tedesca e cittadino statunitense. O ancora fu Berick Traven Torsvan, ingegnere nordamericano che esplorò il Chiapas e studiò lingue Maya all’Università nazionale autonoma del Messico tra il 1927 e il 1928. O addirittura fu Esperanza López Mateos – sorella del futuro Presidente del Messico, fra il 1958 e il 1964, Adolfo López Mateos – che tradusse i suoi libri in spagnolo, fu sua rappresentante legale e detenne i suoi diritti d’autore. O infine potrebbe essere stato Hal Croves, come pensava John Huston (ma il regista ritrattò poi pubblicamente la dichiarazione in proposito nella sua autobiografia del 1980), l’evasivo e laconico incaricato che rappresentava lo scrittore sul set cinematografico durante le riprese del film. B. Traven forse non era nemmeno un singolo individuo ma una società collettiva di autori diversi, alcuni dei quali corrispondenti ai nomi sopra citati. Secondo altri ancora più fantasiosi poi, era addirittura il figlio illegittimo dell’Imperatore tedesco Guglielmo II, oppure Jack London, che avrebbe inscenato la sua morte per overdose di morfina nel 1916, fuggendo in Messico, risposandosi e continuando a scrivere. La fake new più assurda di tutte, dopo quella di London redivivo, vedrebbe in lui un altro fantasma: niente meno che Ambrose Bierce, lo scrittore statunitense scomparso misteriosamente in Messico durante la rivoluzione nel 1914, partito con l’intenzione di aggregarsi a Pancho Villa e dileguatosi nel nulla, senza lasciare tracce.

Comunque sia, come voleva il fantomatico scrittore, almeno le opere restano e sono tutte assai concrete e notevoli. La deliziosa casa editrice Wom da tempo le sta ripubblicando una per una, in sontuosa veste grafica, visionaria e trasgressiva secondo lo stile del personaggio: dopo La rivolta degli appesi (1936) e Macario (1950), è ora la volta dello straordinario romanzo di esordio di Traven, La nave morta (1926). La meno messicana delle sue storie, un romanzo marinaresco in cui, con la consueta dirompente e amara ironia, l’autore denuncia le ingiustizie e le assurdità del mondo appena uscito dalla Prima guerra mondiale, esponendo apertamente, con probabili e manifeste reminiscenze autobiografiche, la sua visione più anarchica che marxista della lotta di classe. La metafora del capitalismo è una nave morta, una di quelle navi fatiscenti destinate dalle compagnie marittime con la connivenza di capitani complici, a un naufragio programmato per incassare l’indennizzo delle assicurazioni. I marinai imbarcati – sacrificabili, un numero limitato di vittime è anzi auspicabile perché l’incidente non risulti sospetto di dolo – i “morti”, sono, come il protagonista, sans papiers, incapaci di comprovare la propria identità e nazionalità, apolidi o irregolari, vittime della burocrazia che non permette loro l’imbarco in navi “rispettabili” e li condanna, se vogliono lavorare e sopravvivere, al gioco rischioso del lumpenproletariat del mare. Traven alterna il sarcasmo al lirismo, l’avventura alla polemica, il distorto realismo espressionista alla deriva onirica e fantastica, narrando le disavventure di terra e di mare del giovane americano che si fa chiamare Pippip, sballottato e respinto da una frontiera europea all’altra in una kafkiana e fallimentare odissea fra uffici, commissariati e ambasciate, per ottenere il libretto di navigazione e l’indispensabile riconoscimento della cittadinanza statunitense. Costretto infine ad imbarcarsi sulla nave morta Yorikke, si assoggetterà alla mansione più umile e massacrante a bordo, il fuochista alle caldaie. Vittima di shangaiing, in un porto dove è sbarcato per qualche giorno, cadrà ancora più in basso: colpito alla testa e rapito, con l’amico e collega Stanislav, da due mandatari, si risveglierà prigioniero sulla nave britannica Empress, un’altra nave morta, dove verrà arruolato a forza come carbonaio, cinicamente destinato ad annegare o bruciare vivo tra le macchine durante l’imminente naufragio, già preventivato. Dopo la fuga rocambolesca durante l’inabissamento della nave e la tragica perdita del compagno più caro Stanislav, nelle ultime pagine, vediamo Pippip andare alla deriva solo, aggrappato a un relitto, ormai quasi in delirio, in mezzo a un mare immenso, silenzioso e indifferente. E’ il destino degli sconfitti, di chi sta dalla parte sbagliata della storia. Un’unica consolazione per lui: varcare, forse, la soglia oltre la quale “sarà per sempre libero da ogni dolore”.

Ormai Pippip non può che tacere, ma pochi capitoli prima la sua rabbia e il suo disgusto avevano percorso le pagine acuminate di gran parte del libro, roventi di considerazioni come queste: “Ho il diritto di odiare la compagnia perché sfrutta questa nave e ne degrada l’equipaggio, semplicemente per ridurre al minimo le spese e sfidare la concorrenza? Non ho il diritto all’odio. Se mi fossi gettato in mare nessuno avrebbe potuto obbligarmi a lavorare in quell’inferno, e dal momento che non mi sono gettato, ho rinunciato al diritto di essere padrone e signore di me stesso. Poiché non ho preso in mano il mio destino, non ho il diritto di rifiutarmi di essere trattato come uno schiavo. […] Imperator Caesar Augustus: non preoccuparti! Avrai sempre i tuoi gladiatori, e ne avrai più di quanti te ne occorrano, e i più forti, i più generosi, i più coraggiosi; per te combatteranno e morendo ti saluteranno: Morituri te salutant! Salve, Cesare Augusto! I morituri ti salutano. […] Noi non abbiamo nome, non abbiamo anima, non abbiamo patria, non abbiamo nazionalità. Non siamo nessuno, non siamo niente. Ave, Imperator Capitalismus !”.