L’affermazione generale sulla resistenza popolare ai nazisti in Germania era che fosse quasi impossibile. I nazisti furono straordinariamente efficienti nel reprimere i gruppi di opposizione per tutti gli anni ‘30. Ci fu pochissima resistenza pubblica antinazista fino alla fine, anche dopo che divenne chiaro che la Germania stava perdendo la guerra. Ciò è stato interpretato in vari modi: come conseguenza del potere nazista e della sua brutalità; come risultato della travolgente propaganda e ideologia del nazismo che in qualche modo infettò l’intera popolazione (la logica implicita dei successivi programmi di “denazificazione”); o come la supina disponibilità dei cosiddetti tedeschi comuni ad accettare il nazismo, supportato da generazioni di ideologia antisemita – argomento fondamentale de I volenterosi carnefici di Hitler (Mondadori 1997) di Daniel J. Goldhagen. Quest’ultima tesi è stata criticata in modo abbastanza rigoroso da molti storici; tuttavia… c’è qualcosa… vale a dire, forse si sarebbe potuto fare di più.
Sappiamo che ci sono stati molti episodi di resistenza minori, ma comunque immensamente coraggiosi in Germania durante il periodo nazista ed estremamente pericolosi per le persone coinvolte. Ma fu mai possibile una protesta collettiva? Avrebbe potuto fare la differenza? Oppure la storia del controllo totalitario nazista è effettivamente vera? E se ci fossero stati questi episodi di resistenza, cosa significano oggi, nel contesto di un processo di memoria storica che offre un diverso tipo di narrazione, in cui solo eccezionali “tedeschi coraggiosi” avrebbero potuto opporsi allo strapotere del regime, perdendo irrimediabilmente quella battaglia – il che a sua volta significa che, per quanto terribile fosse il periodo, nessuno poteva essere del tutto colpevole perché di fronte a quel regime non si poteva fare nulla?
La protesta di Rosenstrasse tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo 1943 diventata nota grazie al lavoro dello storico americano Nathan Stoltzfus nel suo Resistance of the Heart: Intermarriage and the Rosenstraße Protest in Nazi Germany (1966) è un piccolo contro esempio per quanto controverso [1].
La storia. Sorprendentemente molti matrimoni “misti” di ebrei e tedeschi non ebrei furono mantenuti durante il periodo nazista, nonostante le circostanze estremamente difficili che comportavano la perdita della cittadinanza e del lavoro e l’assoggettamento delle coppie a controllo e abusi da parte dei vicini. Quasi tutti gli ebrei in Germania sopravvissuti al periodo nazista erano partner di non ebrei. Alla fine del 1942, c’erano ancora quasi 30.000 di questi matrimoni in Germania, metà dei quali a Berlino.
Il 27 Febbraio 1943 ci fu un grande rastrellamento a Berlino, in cui furono radunati i restanti 9-10.000 ebrei della città. A questi ebrei era stato permesso di restare o perché erano impiegati in industrie “essenziali” o perché erano sposati con “ariani”, oppure erano “Mischlinge” vale a dire non pienamente ariani.
Dei circa 10.000 ebrei rastrellati, circa 8.000 furono subito deportati ad Auschwitz, dove morirono. 1700-2000 ebrei sposati con tedeschi e Mischlinge furono separati dal resto e portati nell’ex centro culturale ebraico in Rosenstrasse; lì furono tenuti in condizioni precarie in attesa di deportazione. Alcuni storici sostengono che l’intenzione nazista fosse quella di utilizzare queste persone nei campi di lavoro forzato intorno a Berlino e in altre città tedesche; altri pensano che fossero destinati ad Auschwitz ma come lavoratori specializzati piuttosto che immediatamente sterminati. Ma per le mogli la questione era chiara: gli ebrei rastrellati dai nazisti venivano deportati e non tornavano – lo sapevano tutti – e questo era il destino che attendeva i loro mariti.
È così che iniziò la protesta di piazza, all’inizio forse accidentalmente, ma con determinazione e concentrazione crescenti. I loro mariti non tornarono a casa alla fine della giornata lavorativa e le mogli tedesche avevano saputo che erano trattenuti nella Rosenstrasse. Andarono quindi lì e iniziarono a gridare che volevano indietro i loro mariti. Alla fine del secondo giorno si erano radunate circa 200 donne che durante la settimana divennero 600.[2] Le donne che protestavano erano davvero in pericolo: la Gestapo era tutt’intorno, venivano sparati colpi sopra le teste della folla. Un punto di svolta sembra essere stato un momento in cui le mitragliatrici vennero puntate sulla folla. Le donne, probabilmente pensando che sarebbero state uccise comunque, gridarono agli uomini delle SS: “Assassini!” e le armi furono abbassate.
Perché le armi furono abbassate, vista la famigerata brutalità del regime e della Gestapo?
Diversi fattori sembrano aver agito a favore delle manifestanti. Uno era l’ideologia ufficiale che in parte alimentava effettivamente la loro lealtà verso i mariti. Si trattava di donne tedesche ariane che seguivano la versione idealizzata di ciò che una moglie dovrebbe fare dimostrando la sua assoluta adesione al primato della vita familiare. Questa ideologia era anche, forse inaspettatamente, un motivo per cui le donne stavano diventando un’importante potenziale fonte di resistenza al regime. All’indomani di Stalingrado cominciava a diventare evidente che la guerra non sarebbe stata vinta facilmente, o forse per niente, e che i sacrifici che le donne stavano facendo sarebbero probabilmente aumentati e tuttavia sarebbero stati vani. I loro uomini inviati in guerra, il loro cibo razionato e le nuove richieste di abbandonare il loro posto in casa socialmente e politicamente riconosciuto per andare a lavorare per lo sforzo bellico, una richiesta che si rivelava inapplicabile di fronte alla fortissima tradizione conservatrice delle donne come casalinghe e sostenitrici delle famiglie.
Perciò le donne che protestavano recitavano un ruolo che aveva un enorme richiamo popolare e che era in linea con la propaganda nazista, anche se in realtà lo facevano in un contesto paradossale: la solidarietà con i loro coniugi, che guarda caso erano ebrei. “La famiglia sopra ogni cosa” sembra essere stato il messaggio, molto difficile da contrastare per il regime. Come esempio della confusione che ciò produsse, Stoltzfus riferisce che “Un uomo della Gestapo, che senza dubbio avrebbe fatto la sua parte spietatamente per deportare gli ebrei imprigionati nella Rosenstrasse, rimase così colpito dalla gente per strada che, alzando le mani in segno di solidarietà con un ebreo in procinto di essere rilasciato, pronunciò con orgoglio: ‘Sarai rilasciato, i tuoi parenti hanno protestato per te. Questa è la lealtà tedesca’”.
Oltre a questi fattori protettivi “ideologici”, ce n’era un altro importante, pragmatico. Le autorità erano in imbarazzo su come reprimere il dissenso perché ovviamente non si trattava di un complotto, ma di una rivolta popolare, anche se molto piccola. La preoccupazione che avevano dopo Stalingrado e il primo bombardamento alleato di Berlino avvenuto il 1° marzo, mentre la protesta era in corso, era che tali sollevazioni cominciassero a prendere piede e che questa scintilla potesse propagarsi ad altre aree e minare il controllo nazista in un momento di fragilità del regime. Infatti, poiché la protesta era molto insolita come manifestazione esplicita e palese di dissenso nella Germania nazista, la notizia si era diffusa rapidamente sia all’interno del Paese che a livello internazionale, amplificando questi timori. Fu probabilmente questa preoccupazione che portò Goebbels a decidere che fosse meglio liberare i detenuti dalla Rosenstrasse. I primi ebrei furono rimandati a casa già dal 1° marzo e nelle due settimane successive quasi tutti furono liberati. La spiegazione ufficiale data per il voltafaccia era che la Gestapo avesse oltrepassato i limiti della propria autorità nell’arrestare gli ebrei sposati, poiché in precedenza era stato deciso di rimandare la loro sorte a dopo la vittoria della guerra.
Qualunque sia la vera motivazione, questi ebrei sopravvissero alla guerra.
Dopo la guerra, come molti altri, gli eventi di quei giorni furono dimenticati fino al 1995, quando a Berlino è stato eretto il monumento Block der Frauen di Ingeborg Hunzinger a cui seguirono altri memoriali. Inoltre, c’è stato un film di Margarethe von Trotta (Rosenstrasse, 2003). In un’intervista al Financial Times nel 2004, von Trotta dichiarò: “Hannah Arendt dice: ‘Quando tutti sono colpevoli, nessuno è colpevole’. Quindi mi è piaciuta l’idea di allestire un altro specchio in cui le persone possano guardarsi – per mostrare che queste donne si sono comportate in modo diverso e che ci sono riuscite”.
Cosa significa trovarsi di fronte alla consapevolezza che qualcosa avrebbe potuto essere fatto, per quanto complicato e rischioso potesse essere? La storia, o il mito, secondo cui era impossibile per il popolo tedesco resistere ai nazisti, li scagiona ed è stato mantenuto con forza dopo la guerra. Anche l’accusa de I volenterosi carnefici di Hitler secondo cui l’intero popolo tedesco era complice della brutalità nazista antisemita produce – in un certo senso – una sorta di determinismo storico che rimuove l’agency da coloro che avrebbero potuto resistere, o che effettivamente hanno resistito.
Queste letture della passività tedesca sono ovviamente radicalmente distinte l’una dall’altra, con implicazioni molto diverse.
Goldhagen ha sollevato il tema della colpevolezza diffusa – una cultura di ‘antisemitismo eliminazionista’ specifica della Germania – che ha aperto un dibattito sui limiti e sul livello di responsabilità dei cosiddetti tedeschi ‘qualunque’ (cioè non nazisti).
La tesi secondo la quale “non potevamo resistere” ha qualche radice nella realtà – nessuno sta suggerendo che la resistenza fosse facile o non priva di gravi rischi – ma funziona anche nell’altro senso, al servizio della negazione. Se “non potevamo resistere”, allora non c’è alcun biasimo per non aver resistito; se ci sono esempi di resistenza che hanno avuto successo, allora si pone la questione del perché “noi” non abbiamo fatto di più.
L’esempio di Rosenstrasse è complicato dai motivi contrastanti e dagli aspetti ideologici della lotta. Le donne erano determinate ad opporsi allo Stato e per certi versi lo contestavano a causa del loro impegno nei confronti dei loro mariti ebrei, ma erano comunque partecipi di alcune delle ideologie naziste, o almeno ottenevano protezione grazie a quell’ideologia. Questo è importante anche in relazione alla valutazione generale delle proteste di piazza e del loro successo: non sarà che funzionano meglio se riprendono qualcosa dall’ideologia egemonica, rendendo difficile per le “autorità” reprimerle completamente? Se il termine “ebreo” avesse dominato su “famiglia”, come sarebbe potuto facilmente accadere in un altro momento della guerra, la Gestapo avrebbe agito con la sua solita impunità? E più in generale, come giudichiamo queste donne: come resistenti di strada, che hanno dato prova di coraggio – cosa che certamente hanno fatto – e quindi meritevoli di essere ricordate, o semplicemente come individualiste, che hanno agito solo perché i propri interessi diretti erano minacciati, ma per il resto hanno tenuto la testa bassa? Dopo tutto, non ci furono ulteriori atti di resistenza da parte loro, anche se erano ormai pienamente consapevoli della minaccia che incombeva su TUTTI gli ebrei.
Ma questa azione – forse eroica – è anche un’accusa: se loro potevano farlo, perché non poteva farlo nessun altro?
Questo è un caso complicato e contraddittorio: la protesta delle donne ha funzionato per numerose ragioni contingenti, e avrebbe potuto facilmente essere disastrosa per loro; e il loro coraggio fu addirittura rivendicato da alcuni come un esempio esemplare di moralità ariana.
In ogni caso, a prescindere da queste contingenze, l’esempio di Rosenstrasse solleva anche una domanda generale su cosa significhi scoprire che, dopotutto, sarebbe stato possibile fare qualcosa. La questione della colpevolezza perseguita il futuro e le generazioni future. Sembra che qualcosa sia apparentemente sepolto – la questione della colpa, dell’assenza di resistenza – per poi risvegliarsi quando qualcosa di nuovo viene alla luce. Il punto che si pone con forza in questo caso ma che è forse presente anche in tutti gli altri momenti di mobilitazione e lotta, è che se alcuni possono resistere, se la protesta nelle strade può funzionare, che ne è di quelli di noi che non partecipano, che stanno a casa ad aspettare, che si mantengono distanti? A che punto le voci perdute della storia iniziano a farsi sentire, nel senso che diventiamo coscienti di un “avremmo potuto”, persino di un “avremmo dovuto”, reso udibile una volta che diventiamo consapevoli dell’effettiva resistenza di alcuni? Non sto rivendicando alcuna superiorità morale, ma piuttosto dire che le opportunità mancate di resistenza si uniscono agli altri ricordi nascosti che ci affliggono: ricordi di complicità diretta con l’oppressione e la sofferenza, di biasimo e incapacità di agire, di resistenza alla resistenza quando è la resistenza reale ad essere necessaria e richiesta. Quando le persone lottano, gli altri stanno a guardare; più tardi, dicono che non si sarebbe potuto fare nulla. Spesso hanno ragione sul fatto che nulla sarebbe riuscito, ma a volte si sbagliano, e c’è sempre qualche piccolo rumore che si sarebbe potuto fare, o anche – quando è il momento giusto – un grande grido: “Assassino, metti giù la pistola”.
[1] Le controversie riguardano, ad esempio, il numero esatto delle persone coinvolte e i sui suoi effetti; in particolare Wolfgang Benz, direttore del Centro di ricerca sull’antisemitismo di Berlino, e il suo allievo Wolf Gruner sostenendo che la protesta non ebbe alcun impatto reale sulla politica nazista e che i nazisti fecero comunque quello che intendevano fare.
[2] Anche su questo gli storici sono divisi; chi pensa non siano mai state più di 200 chi invece pensa che furono fino a 6.000.
Traduzione e riduzione a cura di Elisabetta Michielin. Una versione più lunga dell’articolo è uscita su Lugar Comun n°66 – 2023.