Daniele Mencarelli è il poeta presentato da Milo De Angelis nella sua collana di poesia Niebo nel 2005. Qualche anno prima, proprio all’inizio del secolo, una raccolta di versi uscì nelle edizioni di un’importante rivista letteraria. E, per le Tipografie Vaticane, Bambino Gesù, una manciata di versi scritti col sangue e il sudore d’esperienza personale dentro le mura dell’ospedale pediatrico romano.
Qui a Genova credo che pochi conoscessero la storia di Daniele, e non soltanto perché l’esistenza dei poeti non interessa a nessuno (probabilmente nemmeno a loro stessi). Ci sono quasi sempre compartimenti stagni fra i gruppi che ristagnano nell’impero della poesia. E le differenze d’espressione, la scelta dei padri, la frequentazione di queste o quelle letture pubbliche, alimentano propagande di dubbia lega. Ma restano i libri. Possiedono natura eclettica e extra-individuale, tifosi soltanto della loro partita dentro l’epoca, a volte custoditi amabilmente in angoli bui della biblioteca, a volte maldestramente riportati all’illuminazione di abat-jour impolverate, a volte sfuggiti in privato dall’oblio come a voler respingere brutte amnesie. Chi lo avverte, riceve lampi sorprendenti, tutta una famiglia di pensieri si riunisce intorno al superstite libro, e così accade che s’effonda un tempo nuovo, alla conquista di molte giornate, mesi, o addirittura anni.
Questo è avvenuto con La casa degli sguardi, romanzo di memoria vertiginosa, dove autore e protagonista hanno lo stesso nome, lo stesso paese d’origine, Ariccia, e la stessa volontà di tenere aperti gli occhi. I libretti di poesia improvvisamente si sono fatti vedere fuori dagli scaffali, illuminati da una nuova luce. E così la loro vera dimensione si è mobilitata, incrociando con grandi energie le pagine della storia narrata da Mencarelli. Storia del sopravvivere al vuoto di una “malattia invisibile”, alla caduta quotidiana nella dipendenza, nonostante l’aiuto di genitori che non fanno mancare incontri e scontri duri e governati da precise leggi. La scrittura poetica è tenuta a bada come se fosse una risposta troppo debole alla malattia quando impedisce ai riti della vita comune di compiersi.
Ma dai territori della poesia, dal sostegno dell’amico poeta (ben definito nel libro, con il vero nome), giunge qualcosa di nuovo, il contratto lavorativo con un luogo dove tragedia e salute rincorsa disperatamente stanno accoppiate sullo stesso binario: l’ospedale pediatrico Bambino Gesù. Nei corridoi, nei sotterranei, fra i padiglioni, Daniele incontra la “squadra”, la cooperativa di operai addetti a pulizie e facchinaggio. Tra spossatezza e chiacchierate in un dialetto affettivo, cadute e ricadute della malattia, incidenti, morti brutali di bimbi, e alcune malagrazie, scopre un mondo capace di stringerlo ai reni e a incollargli i piedi per terra. Solidarietà non è parola che giri a vuoto sul terreno calpestato dell’ospedale, ma nemmeno le parole scambiate frontalmente, brevi e crude. La fatica vera, nettare dalla merda le pareti dei bagni, trasportare centinaia di scrivanie in un’unica giornata da una stanza a un tir, entrare in luoghi di sangue e sofferenza senza il coraggio di alzare gli occhi, forse non dà risposte ma consente al corpo di rinnovare le proprie cellule.
Daniele afferma la sua appartenenza alla poesia, attraverso quanto in un mese riuscirà a scrivere e a proporre al presidente come libro dedicato all’ospedale. Accolto poi con emozionato abbraccio e con la stampa nella Tipografia vaticana. Lo stupore dei compagni di lavoro, lo stupore (inaspettato) del presidente gli fanno dire “anche io appartengo a quelli salvati da questo ospedale”. Non si cerchino facili commozioni nella Casa degli sguardi, dal suo interno sopraggiunge una ragione a cui oggi poco si pensa e si crede. Da lì arrivano tutti gli “atti di giustizia” che, dalla “squadra” (uomini e donne alle prese con sudore, sventure e sfinimenti) al corpo autentico della poesia, tolgono dagli angoli chi si sente perduto e mettono al centro della stanza il mondo che bisogna governare.