All’inizio di Detransition, baby, di Torrey Peters, ci sono tre persone, Ames che ha transizionato da uomo a donna e poi detransizionato tornando uomo, Reese che è una donna trans e Katrina che è una donna cis, e si chiedono se vogliono formare una famiglia, e in caso come la vorrebbero formare. Alla fine del romanzo ci sono ancora le tre persone che si chiedono se vogliono formare una famiglia, e come la vorrebbero formare.
E allora cosa succede nelle 420 pagine che intercorrono tra l’inizio e la fine? Ames ha pensato che con la detransizione la vita sarebbe stata più semplice, ma continua a rimpiangere Reese, la fidanzata che era stata la sua unica e vera famiglia. Reese rimpiange l’amore di e con Amy prima che diventasse Ames; quando aveva un appartamento a New York, un lavoro decente, una quotidianità quasi borghese che per una donna trans non è mai scontata. Le mancava un figlio. Le mancava moltissimo. Ed ecco che Katrina, capo e amante di Ames, aspetta un bambino. Non è certa di volerlo. Neppure Ames. Ma se questo figlio venisse cresciuto da tutti e tre? Da Ames, Katrina e Reese insieme, in una nuova famiglia per niente convenzionale ma forse felice?
Insieme i tre personaggi in cerca di felicità e di senso, dibattono, ragionano, litigano, sognano, sperimentano, rischiano, provano. Torrey Peters ci racconta il mondo dei trans con una lucidità, un’onestà e un’ironia rare e bellissime. Forse perché, come ha raccontato lei stessa, il libro è nato pensando alla comunità di cui l’autrice fa parte, e quindi ha potuto tralasciare il come e perché si transiziona da un sesso a un altro, e andare oltre.
Ho incontrato e seguito Torrey Peters per un intero pomeriggio, al Salone del Libro di Torino. È alta, bionda, bella, molto newyorchese nei modi, professionale e friendly. Indossa un vestito a grandi fiori e un cappottone spigato. Affascinante, decisamente.
Un libro politico? È stata una delle prime domande che le è stata fatta. Forse perché poco prima la ministra Roccella era stata contestata energicamente dalla comunità LGBTQ+ e si era molto risentita, come se le leggi che ha fatto non parlassero per lei. Hanno chiesto a Torrey se le famiglie queer negli Stati Uniti se la passano meglio che da noi, dove sono una novità non particolarmente gradita. Se il libro è politico, visto che lei è un’attivista. Ma Torrey ha detto subito che per lei si trattava di un libro molto personale, scritto dalla Torrey artista e non dalla Torrey attivista, e nato dalla domanda che si era posta una volta passata la giovinezza e raggiunti i 30 anni: come vivrò? Come voglio vivere la mia vita? La domanda che ci poniamo davvero tutti, al di là del genere.
La felicità è per tutti? In un altro libro sulla transizione, uscito in Italia quasi contemporaneamente, Il cielo d’erba di Gianfranco Vergoni (Longanesi), uno dei personaggi minori – la giovane donna trans Serena – racconta che quando si alza al mattino e pensa al percorso fatto, pur con tutti i limiti e le difficoltà, pensa che è felice di averlo fatto, così felice che le basta e non tornerebbe mai indietro. Di felicità, in Detransition, baby, ne circola ben poca. Di infelicità invece ne circola fin troppa. Torrey però ci ricorda che la transizione è solo una piccola parte della vita. Una volta che è stata compiuta, i problemi, le domande, le difficoltà sono le stesse che proviamo tutti noi. La transizione non è uno strumento per raggiungere la felicità. Non ti risolve la vita. È un percorso e soprattutto un inizio. Si può paragonare a quello che per tradizione è sempre stato il matrimonio per le donne cis: qualcosa che veniva pensato come un fine, e che poi si rivelava solo un punto di partenza. La transizione anche sembra un fine ma è un punto di partenza. E dunque la felicità va cercata nella vita che poi si sceglie di fare.
Le parole aiutano. Il protagonista della detransizione si chiama Ames. Si è chiamato Amy quando aveva transizionato da uomo a donna, si chiamava James quando era un ragazzo. C’è una sorta di sottrazione, ma anche di continuità, nella scelta dei nomi, che ovviamente nulla ha di casuale. Ames ha scelto di detransizionare perché aveva bisogno “della corazza della mascolinità”, perché gli era intollerabile la fragilità connaturata alla condizione di trans, perché con la fidanzata Reese, in cui aveva creduto e con cui aveva cercato di vivere senza filtri, paraventi e protezione, le cose erano andate male, malissimo. Non è un fallimento. Ma un cambiamento. A cui ne possono seguire altri. Nessuno cammina su un binario, nessuno è esente da errori e ripensamenti. Anzi gli errori, il riconoscerli e accettarli e assecondarli, è necessario per evolversi, per crescere, per approfondire ed espandere la propria vita.
Maternità. Visto che ruota intorno alla scelta se avere un figlio o no, questo sembra un romanzo sulla maternità. E sì, in realtà lo è. Allargando un po’ il concetto di maternità. Maternità come “relazione di cura”. Le donne trans, sicuramente quelle della comunità newyorchese di cui fa parte Torrey, creano dei rapporti madre/figlia in cui le donne più grandi o che hanno transizionato da più tempo aiutano le più giovani ad affrontare anche la vita pratica e quotidiana: dove abitare, dove fare gli acquisti, quali sono i locali accoglienti e simili. Torrey stessa è stata “transmother” e diverse “transdaughters”. Maternità come generazione e crescita dei figli. Come per le donne cis, la maternità è una possibilità. Talora una scelta. Alla fine della stesura del romanzo (che ricordiamo è uscito negli USA circa tre anni fa) Torrey stessa si era chiesta se avrebbe voluto avere un figlio. Si era risposta di no. Poi è successo che si è sposata con una donna che aveva già un figlio, e si è ritrovata a fare da madre. Meno male che aveva affrontato la questione nel romanzo.
Voci e vecchi panni. Detransition, baby ha una struttura piuttosto classica e il racconto è affidato ai tre protagonisti. Così qualcuno ha chiesto a Torrey quando e come fossero nate le voci di Reese, Ames e Katrina. “Quella stronzetta di Reese era con me fin da subito, ha detto Torrey. Mentre per Ames c’è un aneddoto carino. Sono andata in Messico con degli amici, ma ai tempi sul passaporto avevo ancora la M di male. Non volevo avere problemi nel passare il confine, così ho indossato uno dei vecchi completi di quando ero uomo, un gessato con un’aria vagamente gangster. Quando sono arrivata mi avevano perso i bagagli, e così per tutta la settimana sono andata in giro vestita da uomo. Che vuol dire che venivo percepita, guardata e trattata, rispettata come un uomo. Per quanto mi sentissi lontana, questa esperienza mi ha dato la voce per Ames. E ora mi sento più Katrina. Ho cambiato molto di quello che avevo scritto inizialmente nella sua prospettiva, c’è stata un’evoluzione, un cambiamento che mi convince anche ora. E mi sento di dire che ora il personaggio che sento più vicino a me è proprio Katrina”.
Siamo più uguali di quel che crediamo. Dice la famosa frase de La fattoria degli animali di George Orwell: “Tutti gli animali sono uguali, ma qualcuno è più uguale degli altri”. Alla fine del mio pomeriggio con Torrey Peters io vi direi “Tutti gli uomini sono diversi, ma alla fine sono uguali”. Perché la lezione che ci arriva dai dichiaratamente diversi, da quelli che sono diversi non per scelta ma per forza, è che è proprio nella diversità, nell’unicità di ciascuno di noi che si trova l’uguaglianza. Nel momento in cui il percorso per trovare sé stessi, che sia il passaggio da uomo a donna, da donna a uomo, oppure da adolescente a adulto, nel momento in cui quel percorso si è compiuto e siamo diventati noi stessi, le domande e le scelte sono le stesse per tutti.
Una volta che abbiamo risposto, almeno temporaneamente, alla domanda “chi sono io?”, altre mille domande premono. Cosa voglio fare? Che vita voglio condurre? Chi voglio prendere come esempio? Quanti e quali compromessi sono disposta/o a fare? Come faccio a restare lo stesso fedele a chi sono e ho scelto di essere? Sono le questioni che ci poniamo tutti, tutti i giorni. Su cui ci arrovelliamo. Che ci sembrano insopportabili. Ma che ogni tanto, in dei lampi o degli squarci, ci appaiono chiare e limpide. In quel pomeriggio a Torino ho raccolto un messaggio prezioso e che non mi aspettavo. Che spero arrivi a molti altri con la stessa forza e leggerezza con cui l’ho ricevuto.